Anna Lombroso per il Simplicissimus

Non mi fa piacere dirvelo, però io ve l’avevo detto. Ve l’avevo detto che non era il caso di fare tanto gli schizzinosi e di andare a votare al referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari.

Perché era vero che si trattava dell’uso manipolatore dell’ultimo strumento partecipativo autentico ancora concesso, elargito come una mancia all’antipolitica ormai al governo e pure all’opposizione, a tutela della cerchia disposta a ridursi pur di conservare il sistema di selezione del personale e dell’intangibilità delle proprie élite.

Perché era vero che l’onorabilità della formazione del No era macchiata da presenze ingombranti e poco credibili.  Perché era vero che l’esito era scontato.

Però era altrettanto vero che era necessario dare una risposta politica al quesito inevaso  da autorevoli rappresentanti del Si e cioè quali garanzie e riscontri potevano esserci che un taglio lineare della rappresentanza influisse beneficamente sui criteri di scelta e sulle prestazioni dei parlamentari.

Però era altrettanto vero che non poteva non insospettire che a battersi per un atto dichiaratamente simbolico più che concreto ci fosse uno schieramento che copriva tutto il Parlamento con in testa quei babau che incarnano ormai il Male e l’oltraggio ai valori costituzionali.

Però era altrettanto vero che se si era legittimamente dubbiosi sulla qualità e gli effetti di un voto preteso dagli stessi che dopo che per un anno si erano gingillati intorno a riforme e disposizioni avevano poi optato per dichiarare la loro impotenza o inadeguatezza o cattiva volontà, delegando al popolo l’attuazione di principi già votati a maggioranza, ciononostante era preferibile non consentire che la vittoria, peraltro risicata del Si, si trasformasse in un plebiscito in favore della maggioranza.

Perché così è stato e potete accorgervene adesso, adesso che di giorno in giorno viene confermata la totale “superfluità” (traggo il termine dal Manzoni a proposito di altra pestilenza) del Parlamento, la cui eclissi benefica e desiderata dai molti che aspirano a un governo invisibile che amministri la cosa pubblica senza disturbare gli interessi privati, è sancita dal ricorso a  provvedimenti d’urgenza e misure esplicitamente autoritarie e accentratrici e la cui potestà è stata esautorata in favore di figure commissariali investite di potere decisionale oltre che di consulenza.

E se ne dovevano accorgere deputati e senatori opportunamente esclusi dal parterre e dal tavolo di Villa Pamphili, dove hanno fatto la parte del leone i veri decisori sovranazionali, invitati dal Governo a dare l’approvazione bonaria al compitino che doveva assicurare qualche elemosina imperiale.

Ogni tanto quelli che stanno attendendo fiduciosi che sia pure nelle more dell’emergenza si esprimano le potenzialità della pandemocrazia, che il Parlamento metta in produzione le attese riforme e gli auspicati ritocchi costituzionali, dovrebbero farsi un giretto nei siti istituzionali che riportano l’aggiornamento, si fa per dire, dei lavori delle Camere.

Avrebbero notizia oltre che l’attività si è limitata alla ratifica dei Dpcm di Conte, in materia di gestione dell’emergenza nelle scuole e in altri settori, comprese quelle in materia di intercettazioni con le disposizioni    integrative e di coordinamento in materia di giustizia civile, amministrativa e contabile e misure urgenti per l’introduzione del sistema di allerta COVID-19, e di strategici accordi di cooperazione (cito) con Singapore, Turkmenistan, Qatar, Messico, a dimostrazione che non occorreva l’altro referendum, quello di Renzi, per stabilire che le Camere altro non siano che gli uffici dove gli impiegati appongono il timbro notarile sulle decisioni dell’Esecutivo.

Che se poi era importante il messaggio di trasparenza e pulizia, sarebbe ora di andare a spulciare sui conti e le “ricevute” a margine dell’attività delle autorità speciali e delle task force incaricate dal Presidente Conte con poteri eccezionali e sostitutivi.

Sarebbe legittimo aspettarselo da quelli che hanno registrato un inatteso successo con l’ostensione dei valori dell’onestà  e anche da quelli che invece hanno rivendicato la proprietà ideale dei principi di efficienza e meritocrazia, dai giornali che hanno per anni posseduto il monopolio della denuncia della caste e del malaffare a norma di legge,  oggi prudentemente accantonato per non disturbare i manovratori.

E sarebbe legittimo quindi conoscere l’esito dell’indagine aperta dalla Corte dei Conti sulle retribuzioni di funzionari e manager troppo elevate rispetto alla norma entrata in vigore dal 1 gennaio 2014  che metteva un tetto ai compensi dei dirigenti di aziende a controllo statale e che coinvolge direttamente Arcuri, ora a capo della task force che deve restituire 1,4 milioni dello stipendio percepito in qualità di Ad di Invitalia, incarico che continua a ricoprire in contemporanea a quello conferitogli da Conte.

Perché, sempre per restare in tema, c’è un’altra continuità con il passato che non si è mai rotta, quella del conflitto di interesse, se nelle strategia per il rilancio e la ricostruzione, temporaneamente rinviata a data da destinarsi, Invitalia rimane il più prestigioso e accreditato referente e interlocutore per le politiche di sviluppo in settori cruciali a cominciare dal turismo, dalle sue infrastrutture, dagli investimenti “dedicati” non sorprendentemente al sostegno a multinazionali e grandi gruppi, o del “digitale”, la nuova frontiera dell’occupazione, quella agile, mobile, creativamente precaria che piace alla gente che piace.  

E magari non sarebbe “normale” in democrazia  istituire una commissione parlamentare sulle risorse impiegate e i soggetti beneficati dal turbinoso ricorso ai banchi a rotelle, anche quello promosso da Arcuri, e accreditato come un banco di prova della capacità del governo di usare l’emergenza come opportunità per promuovere con la sicurezza sanitaria un sostanziale e efficiente “miglioramento delle condizioni del luogo privilegiato cui è affidata la formazione dei cittadini di domani” e del silenzio calato sulle  modalità e i tempi delle procedure  di appalto e sull’approvvigionamento sul territorio nazionale, interrotto in queste ore dallo stesso commissario che, in una intervista a Vespa, ha accusato le Regioni del Mezzogiorno di aver approfittato della sua azione magistrale e sapiente “per rifarsi le scuole” a spese del Governo?

Non sarebbe “sano” promuovere un’inchiesta sul business delle mascherine che è diventato il brand per imprese che intendono così l’innovazione tecnologica, con la conversione dinamica dalle auto ai bavagli, e, a sentire l’antimafia, per quelle criminali che aggiungono produzioni e distribuzione del prodotto di successo a business già attivi nel settore sanitario, grazie a iniziative congiunte con amministratori a tutte le latitudini?

Ormai i nomi dati al nostro sistema di governo si aggiornano, si modernizzano e non in meglio, postdemocrazia, oligarchia, cleptocrazia. E sanno parlare solo di rinuncia e tradimento.