Anna Lombroso per il Simplicissimus

Allo scoppio del conflitto in Irak una foto fece il giro del mondo. Si vedeva  un soldato Usa,  uno di quei ragazzoni che ognuno vorrebbe per figlio, che “metteva in salvo”  un bambino iracheno ferito e terrorizzato.

Il Pentagono fece sapere che il giovanotto, arruolatosi pochi giorni dopo l’attentato alle Torri Gemelle per combattere il terrorismo “incarnazione del Male assoluto”  e esportare la nostra civiltà superiore, era un medico che si prestava a portare sollievo agli inevitabili “effetti collaterali” dell’Operazione Libertà Irachena, come venne chiamata dai consulenti per l’immagine di Bush Jr quella guerra insensata, con scarso successo per via dell’acronimo Oil (Operation Iraqi Liberty) che si prestava a interpretazioni maliziose, mentre aveva invece incontrato il favore del pubblico e della critica il nome del primo attacco aereo su Baghdad “Schock and Awe” (Colpisci e terrorizza).

Se c’è un prodotto che grazie alla globalizzazione è stato commercializzato e fatto circolare ovunque con successo, è la compassione,  che, diceva Brecht,  è “ciò che non si nega a coloro cui si negano aiuto e solidarietà” e che, come scriveva Susan Sontag che non ha ricevuto il Nobel, “ci proclama innocenti oltre che impotenti”, e quindi invece di commuoverci sulla sorte delle vittime di guerre e imprese coloniali, meglio sarebbe che riflettessimo su come e quanto i nostri privilegi e consumi si “collochino sulla mappa delle loro sofferenze”.   

Non riguarda quindi solo il marketing della fabbrica del consenso il fatto che chi bombarda mandi in tempo reale la Croce Rossa, che chi rade al suolo invii i caschi blu, con compiti di occhiuta sorveglianza e prevenzione delle prevedibili reazioni di “malcontento” dei sopravvissuti, in modo che non incrementino i danni per sé e gli altri, che chi rapina, depreda e saccheggia destini risorse ingenti ai programmi contro la fame nel mondo.

La pietas aiuta a scaricare spese dalla denuncia dei redditi e  eventuali costi morali dalle coscienze, legittimando con una presunta superiorità (sociale, culturale, morale, razziale) un dominio che serve a garantire che i settori privilegiati “occidentali” conservino il controllo delle risorse continuando a trarne benefici sproporzionati e ingiusti.

È diventato ancora più facile da quando si può anche esercitare la ferocia in forma light e la barbarie in versione soft, premendo un tasto che dirige il drone nelle zone dove è sacrosanto e doveroso recare i messaggi della democrazia e della civiltà che le popolazioni locali non sanno e non vogliono conquistarsi, persuadendole  dolcemente con un secondo clic, quello che apre il portello dal quale si scaricano le bombe.

Anche l’eventuale senso di colpa del colonizzatore trova riposo, convincendosi che si tratta di eventi più lontani e meno realistici delle location e della sceneggiatura di una serie di Netflix, che le “bonifiche etniche” siano autorizzata dalla necessità del contrasto del terrorismo, che i conti tornino se il bambino di Falluja che ha perso le braccia durante un bombardamento è stato poi curato a Londra, dotato di due arti artificiali, su uno dei quali campeggia un tatuaggio della squadra del Manchester, godendo delle magnifiche sorti del progresso che in patria e in pace gli sarebbero state negate.

E difatti quest’anno a essere insignito del Nobel per la pace  è stato il World Food Program (Wfp), Programma alimentare mondiale.

La presidente del Comitato per il Nobel ha elogiato l’agenzia Onu, diretta con dinamismo e tenacia dall’americano David Beasley, un trumpiano di ferro ex governatore repubblicano della South Carolina, proprio perché svolge «un ruolo cruciale nella cooperazione multilaterale» grazie  soprattutto ai contributi dei governi, in testa gli Stati Uniti, primi donatori con oltre il 43% del budget, oltre 8 miliardi di dollari raccolti nel 2019.

Il riconoscimento, è stato detto, assume una particolare attualità, a “ricordarci”, come ha scritto il Corriere,  “che la pandemia passerà mentre la fame no e non ci può essere pace con quasi 700 milioni di persone che non sanno se domani mangeranno”. E infatti oggi 690 milioni di persone al mondo soffrono di malnutrizione, di cui 135 milioni in forma acuta. Ma con la pandemia il numero è destinato a raddoppiare, tanto che il traguardo che si era posto l’Onu, quello della «fame zero» entro il 2030 è sempre più lontano.  

E chi meglio di questa organizzazione benefica poteva meritare il premio per il paradosso, quello per il tardivo e micragnoso risarcimento grazie a meccanismi di mercato: cooperazione commerciale di risorse fino al giorno prima estratte, estorte, rubate,  investimenti in infrastrutture fino al giorno prima bombardate, bonifiche di aree fino al giorno prima avvelenate da industria che hanno scelto localizzazioni esterne per non inquinare in casa, se due terzi degli aiuti vanno nelle aree di conflitto, Yemen, Sud Sudan, Siria, Somalia, Sudan, Repubblica democratica del Congo, Nigeria e Afghanistan?

Eppure si tratta di paesi che  dispongono di risorse che premetterebbero di godere di  condizioni di vita dignitose a tutti i suoi abitanti (assistenza sanitaria, istruzione, occupazione e salari decenti), se non fossero stati geografie soggette a sconvolgimento socioeconomico coloniali, a scorrerie e distruzioni, ai quali sono state imposte le regole del neoliberismo occidentale: crescita basata sulle esportazioni e sullo sfruttamento turistico con fisiologico deterioramento dell’ambiente,  liberalizzazione degli investimenti diretti esteri e  privatizzazioni di imprese pubbliche nei settori strategici  e dei mercati finanziari (che alimenta investimenti puramente speculativi e predatori senza contribuire allo sviluppo dei Paesi in cui avvengono).

Dighe, cementifici, alberghi nel deserto, zuccherifici, centrali elettriche,  spremono come sanguisughe la finanza pubblica, arricchiscono le imprese occidentali con la compiacenza, se non l’incoraggiamento, delle organizzazioni internazionali, che proclamano  di favorire lo sviluppo dei paesi poveri e nel medesimo tempo li saccheggiano senza vergogna.

Dovrebbe ricordarci qualcosa la concessione data a parenti poveri di aumentare il debito per poi pretenderne  il  rimborso esatto,  inestinguibile poiché  aumenta in proporzione alla restituzione, grazie a un ingranaggio finanziario machiavellico, mentre al contempo si permette e promuove un saccheggio delle risorse naturali, materie prime, minerali e energetiche, produzioni agricole, manodopera e forza lavoro,  per obbligare a far fronte agli impegni.

Ma pare che non siamo proprio capaci di guardare dietro al reality  che ci mostra  individui che approdano sulle nostre coste come vittime o invasori, a seconda degli opposti preconcetti ideologici, per cominciare a vederli come membri di comunità dissolte dagli stessi processi che hanno cancellato l’identità, l’autodeterminazione e il futuro dei loro Paesi e dei quali siamo corresponsabili. Per dirci che siamo ancora più correi, quando le stesse dinamiche stanno distruggendo il nostro.