Anna Lombroso per il Simplicissimus

Pare che ormai sia obbligatorio schierarsi in una curva, sventolare i gagliardetti di una tifoseria, pena l’arruolamento vergognosa  nella fazione silenziosa degli “indifferenti”. Ma c’è una novità, l’anatema e l’ostracismo non vertono sui contenuti e i temi del confronto non pacifico, ma ormai sulla base delle frequentazioni “ideali” di occasionali compagni di strada o di merende.

In campagna referendaria il fronte del Si grazie alla rimozione della condivisione delle scelte con promotori come Salvini, rimproverava a quello del No lo scandaloso sostegno di Prodi, poi anche di Brancaccio e Montanari, fino a ieri idolatrati,  e soprattutto la propaganda dei giornaloni, così non c’era modo di ottenere una risposta sensata al semplice e modesto quesito di fondo, se cioè un taglio lineare dei parlamentari avrebbe potuto costituire un miglioramento nella selezione del personale politico e delle sue prestazioni.

Allo stesso modo è doveroso sostenere il Governo Conte 2 – il Conte 1 è stato sottoposto a una benefica damnatio memoriae come non fosse mai esistito, anche se sono ancora bellamente in vigore misure, leggi e altre vergogne riconducibili unicamente alla presenza del buzzurro.

Perché altrimenti, è evidente, stai con Salvini, con Berlusconi, perfino con Confindustria, anche se a nessuno può sfuggire che quella detta e i ministri scrivono, a cominciare da quelli  che vengono applauditi quando si recano in pellegrinaggio a recare la buona novella  delle elemosine europee elargite a strozzo coi nostri soldi, altrimenti sei assimilato ai terrapiattisti e ai negazionisti del Covid.

Lo stesso vale per lo smart working, che bisogna doverosamente apprezzare in qualità di contromisura agli assembramenti nei luoghi di lavoro e sui mezzi di trasporto, che da marzo a oggi non sono stati adeguati alle nuove esigenze di sicurezza.

Guai agli  sprovveduti che avanzano riserve: ma non sarà che così si dà luogo a forme contrattuali ancora più precarie e anomale; ma non sarà che così i lavoratori sempre più isolati gli uni dagli altri sono più esposti a ricatti e intimidazioni; ma non sarà che si tratta di una bella pensata per condannare le donne ad accettare e a essere anche contente del doppio lavoro tra cucina e  pc, proprio come una volta con la macchina da maglieria o a confezionare guanti; ma non sarà che così certe mansioni garantiranno al datore di lavoro una disponibilità dei dipendenti h24, che nella valigia delle ferie, per quelli che possono permettersele, ci si dovrà portare il computer, il modem, la chiavetta, a spese del vacanziere che vuole troppo?

Guai sollevare queste obiezioni che denunciano l’appartenenza alla schiera di fan di Ichino, i dissuasori misoneisti del progresso che denunciano i poltroni del sofà, i flaneur, i perdigiorno che si sono finalmente liberati del cartellino.

Anche in questo caso è vano portare dati, numeri, statistiche, che valgono solo se prodotte dalla cerchia dei santoni resilienti.

Meglio non fargli sapere  dei risultati di una indagine condotta dall’Inapp, L’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche, ente pubblico  che svolge analisi, monitoraggio e valutazione delle politiche e dei servizi per il  lavoro, che mette in guardia non solo dalla  perdita delle relazioni sociali (62%), effetto del “lavoro agile”, della mancanza di separazione tra ambiente domestico e ambiente lavorativo (32%) dei rischio di un sovraccarico di lavoro (21%), ma pure delle difficoltà di far pagare ai “corretti” la latitanza degli sfaticati.

Lo smartworking, dicono, stravolge l’organizzazione degli uffici, induce nuovi ritmi, cambia abitudini e orari, altera il rapporto spazio-tempo, rivoluziona la vita delle città, ma, secondo l’Inapp,  incrementa le  disuguaglianze sociali.  

Ha infatti permesso a chi già aveva un reddito più alto di continuare a lavorare , mentre ha prevalentemente sospeso le occupazione  inadatte (manifatturiero, manuale in genere) allo smart work accentuando ancora di più le disuguaglianze tra generi e lavoratori, favorendo  chi percepisce già redditi alti (in prevalenza uomini)   creando un vantaggio salariale (calcolabile almeno nel  17%) a scapito dei  più deboli (con mansioni meno qualificate) e, in generale, delle donne.  

Per chi fosse curioso di sapere da che parte stare vale invece la pena di riportare i pareri di direttori del personale, riuniti nell’Aidp e dei manager interpellati, entusiasti delle prestazioni, della riuscita e dei profitti del lavoro agile e persuasi della sua bontà, tanto che più del 68% si dice talmente convinto da prolungarne l’applicazione indefinitamente, con indubbi vantaggi:   risparmio di tempo e costi di spostamento per i lavoratori; aumento della responsabilità individuale; maggiore soddisfazione dei dipendenti e miglioramento della vita in termini di work-life balance (si indica così la “opportunità” di bilanciare in modo equilibrato il lavoro, carriera e ambizione professionale, e la vita privata famiglia, svago, divertimento, come fanno da sempre – guarda un po’, le donne obbligate a sostituire il sistema di welfare, di assistenza, di istruzione).

Insomma deve diventare  uno “strumento strutturale dell’organizzazione del lavoro con percentuali superiori rispetto a prima…Si apre, così, una nuova fase di ripensamento del futuro del lavoro in cui bisognerà ben bilanciare le opportunità con gli svantaggi e soprattutto sarà necessario uno spirito collaborativo tra le parti”, quello spirito sempre invocato da quelli che ci ricordano che “siamo tutti sulla stessa barca”, pronti a  farci affogare alla prima ondata ma con la coscienza a posto.

 La scadenza per le disposizioni che consentono alle aziende di decidere unilateralmente l’adozione del lavoro da remoto è attualmente fissata al 15 ottobre. Sarà naturalmente “influenzata” dal prolungamento dello stato di emergenza che permette al miglior governo che ci potesse capitare, alle regioni e ai comuni di chiamarsi fuori dal dovere di garantire mezzi di trasporto che garantiscano le elementari condizioni di sicurezza e alle aziende di osservare le regole e i principi di precauzione sottoscritti in forma “volontaria” grazie a un inverecondo accordo unilaterale firmato per esonerare da eventuali responsabilità collegate direttamente al Covid da imprenditori che hanno sulla coscienza quegli assassinii che vengono chiamati morti bianche e in banca o alle Cayman il malloppo frutto del risparmio in sicurezza e tecnologia e investito nel casinò finanziario.

A guardarsi intorno in difesa del lavoro agile scendono in campo oltre ai profeti della digitalizzazione sul libro paga dei consiglieri speciali dell’esecutivo in sostituzione del Parlamento troppo impegnato a riformarsi,  oltre alle vittime di una concezione del progresso che si illudono che l’automazione ci riscatterà della fatica concedendoci al tempo stesso quel benessere  che ci permetterà di godere le delizie della vita secondo Keynes, oltre a quelli che pensano di essere protetti e esenti nella loro tana, anche altri.

Ci sono gli arresi. Sono  quelli che fanno buon viso a cattiva sorte, che si augurano così di conservarsi il posto magari faticando un po’ meno, quelli che godono i vantaggi di non fare un andirivieni sui mezzi affollati, di non mangiare le orrende e avvilenti vivande della mensa, o la pizza al taglio in piedi, per mettersi via i buoni pasti.

Ci sono quelli che sono appagati di poter stare da soli sul tavolo da pranzo con l’altra metà tovaglia stesa per imbandire il pranzo, o su quello da cucina dove si sgranano i fagioli, perché così si risparmiano il contatto con colleghi molesti, la permanenza in stanzoni malsani, la colonna sonora fastidiosa che accompagna il lavoro negli open space.

Ci sono quelle che si sono dichiarate vinte, e è comprensibile, che così combinano il cottimo legalizzato con la cura della famiglia, l’assistenza ai malati e ai vecchi di casa, le faccende, le corse per portare e riprendere i figli a scuola, a “motoria”, così si chiama adesso la ginnastica governata dalla profilassi pandemica, che così provano meno cocente la rinuncia a ambizioni e vocazioni.

E ci sono i sindacati che sono venuti meno al loro incarico, che hanno scelto altre “mission” tra il Welfare aziendale, il ruolo promosso dalla incompleta informatizzazione di “patronati” sbriga-faccende, e l’attività di consulenti adibiti  a consigliare fondi, assicurazioni, integrative. E che si esonerano dal dovere di testimoniare e rappresentare gli sfruttati, che non hanno piazza nella quale manifestare, né scioperi per rivendicare.

Tutti più o meno, si sono abituati a pensare che così si guadagni in libertà come coi lavoretti alla spina che permettono di scegliersi il percorso e l’orario di consegna della pizza.  Che sia meno pesante il tallone di ferro, se il capufficio non ti sorveglia dal suo box, che guadagni in salute con il distanziamento che più sociale di così non può essere, e in salario se ti sottoponi a un cottimo volontario, restringendo il riposo per produrre di più.  

Mentre la libertà è un’altra cosa, quella in nome e grazie alla quale si sarebbe dovuto lottare per orari decenti, remunerazioni dignitose, servizi efficienti, posti di lavoro sicuri, condizioni contrattuali giuste e legittime. Quella cui in troppi si sentono in dovere di rinunciare, in cambio della sopravvivenza. Ma non è mica vita quella.