perpostAnna Lombroso per il Simplicissimus

A volte toccare tornare su temi solo apparentemente marginali, che invece rappresentano indicatori dei nuovi valori di un’opinione pubblica, la sola che si riservi il diritto di espressione in virtù di una pretesa superiorità sociale, culturale e quindi morale che la eleva sulla massa rozza e ignorante.

L’occasione è un post (qui: https://ilsimplicissimus2.com/2020/08/16/laltra-meta-della-griffe/) nel quale me la prendevo  non con il presidente del consiglio oggetto quotidiano della mia critica su temi più cruciali, nemmeno la sua fidanzata, apprezzabile per il remoto e algido distacco mostrato in quel frangente come d‘altra parte in merito al generoso omaggio riservato dal governo all’azienda di famiglia, perdonata per l’omissione del pagamento della tassa di soggiorno, bensì con stampa e opinionisti della rete che si erano stretti intorno alla giovane signora rea, per qualche invidioso affetto da frustrazioni e rancori, di esibire uno  status symbol dal costo esorbitante.

Era stato un alacre affaccendarsi di quotidiani, blog, siti  e frequentatori dei social, suffragati da alcuni vangeli della mediocrazia, Dagospia e organi addetti allo smascheramento di fake, purchè non governative, inteso a dimostrare che l’acquisto e l’ostensione dell’oggetto del desiderio griffato Hermes, definito anche bene aspirazionale, o costituiva la giusta ricompensa acquisita a conferma del successo di carriera personale di una giovane donna affermatasi nell’impresa di famiglia, oppure, a piacere, di un simpatico prodotto contraffatto di quelli sciorinati sui tappetini dei vucumprà, offrendo l’affettuosa immagine “democratica” di una privilegiata che si appaga di una imitazione proprio come la proverbiale casalinga di Voghera in trasferta sul litorale.

C’è da pensare che le reprimende riservatemi con l’accusa di immotivata acrimonia e meschino livore nascano  dalla volontà di riconfermare l’atto di fede nei confronti del Bel Ami assunto a Palazzo Chigi con le funzioni di salvatore della salute pubblica, certo, ma siano suscitate anche dalla combinazione della piaggeria nei confronti di chi sta su nella scala sociale combinata con l’idolatria per i totem dei consumi del lusso che con ragione  e per merito possono aggiudicarsi, in regime di esclusiva, i potenti.

Così ho guardato con una certa nostalgia a quel vizio che una volta si chiamava ipocrisia, un tratto distintivo della nostra autobiografia nazionale attribuibile all’occupazione militare oltre che confessionale della religione cattolica, che aveva convertito in etica pubblica la sua morale confessionale. Capitava allora di vedere la mattina all’alba illustri manigoldi che prendevano la comunione e baciavano la mano al vescovo prima di analoghe effusioni dedicate a un qualche capocosca, gli stessi che magnificavano la modestia della loro signora che, qualche passo indietro, aveva contribuito in qualità di angelo del focolare al loro successo, benchè tradita con qualche stellina beneficata dalla esibizione sulla  Settimana Incom.

Anche il vestire era consono, i notabili con cappottoni che parevano confezionati con coperte della naja o con certe magliette striminzite e incolori sfoggiate durante sobri e effimeri ferragosto,  le mogli ingessate in mesti soprabiti col collettino di lapin o insalamate per le grandi quanto rare occasioni pubbliche  dentro certi abitini imprimé con sopra il cappottino foderato della stessa stoffa, una mise che francamente consiglieremmo a qualche ministro odierno, che ne guadagnerebbe in stile.

È che si trattava di riti penitenziali e convenzioni  necessari per dimostrare affinità e consonanza con un popolo che usciva dagli stenti del dopoguerra e si preparava ai fasti del boom ma proseguiti negli anni successivi quando vigevano compostezza e moderazione, confinando eccessi gli eccessi a un altro contesto “pubblico” e vistoso, quello delle opere speculative,  tanto da far subire l’ostracismo a consorti (a nessuno allora sarebbe venuto in mente di chiamarle first lady)  ree di civetterie e look inappropriati.

A pensarci bene valeva anche per la dinastia (oggi però la chiameremmo famiglia disfunzionale) che nell’immaginario degli italiani aveva preso il posto della casa non più regnante e dei suoi rampolli troppo esuberanti:  Gente, Oggi ben prima delle riviste di gossip oggi in eclissi tanto da temere la concorrenza dei settimanali del filone “criminale”, diffondevano gli stilemi dell’avvocato, ma quelli imitabili, stivaletti con la para sotto lo smoking – tenuta cui  la massa aspirava per i matrimoni anche di mattina ad onta della sua destinazione rigorosamente serale – o orologio sopra il polsino.

Ma si trattava di simpatiche bizzarrie cui faceva da contrappunto una severità ribadita dalla estrema magrezza denutrita delle bellezze di famiglia, che si supponeva piluccassero raramente un ovetto di storione tanto per gradire e niente di più, o dallo sfoggio virtuoso di abiti austeri indossati e immortalati in più occasioni private e pubbliche, eredità di divise alla marinara  simboliche di memorie domestiche in palazzi e ville poco riscaldati per abitudine monastica e esemplari  di un superiore distacco anaffettivo anche di fronte a scandali e lutti, che si sa se gli affetti producessero  reddito se li sarebbero conservati  in regime di esclusiva come i proventi azionari.

Insomma anche i ricchi come i potenti, dovevano farsi carico della fatica – almeno quella – di mostrare pentimento e di  compiere  le liturgie dell’espiazione per i  privilegi ereditati o per quelli conquistati con pratiche e intrecci opachi.

Va a sapere la data che ha segnato la fine dell’ipocrisia, nella Milano da bere di Verdiglione, degli architetti e delle modelle, con la Grande Bellezza coi peones ammessi alle terrazze sotto l’ombrellone da mercato, mentre Carminati e Buzzi si preparavano a erogare cocaina e servigi, quando la progressiva volgarizzazione di tutto avrebbe sostituito antichi vizi con l’ideologia che ha stabilito al sua egemonia innervando i riti sociali, matrimoni, funerali, comunioni, legami e inclinazioni, relazioni industriali e informazione, politica e spettacolo, somatica ed estetica, come progressione o regressione del puritanesimo negli Usa,  che ha colonizzato perfino il nostro immaginario, radicandosi nella tradizione cattolica.

Quindi per una volta è congruo usare lo slang dell’impero per dire che il polically correct ha cambiato i modi dell’ipocrisia, per adattarla al neoliberismo, in modo da autorizzare e legittimare l’onnipotenza ma pure la pretesa di innocenza  di chi sta su e da contenere collera  e ribellione di chi sta giù, riconoscendone la liceità alle “minoranze”, con l’intento di dividere i cittadini, di stabilire gerarchie di diritti e bisogni e graduatorie dei meritevoli.

Tutto viene passato nel tritacarne della rete, delle corporation, alvei nei quali nessuna forma di istruzione e sapere penetra, in modo che appaia solo qualcosa di labile in superficie, sotto forma di slogan, antifascismo, antirazzismo secondo modalità e stravolgimenti semantici sicchè sembra un passo avanti che gli omofobi menino i gay non chiamandoli froci o quelli di NYPD, abbattano gli afroamericani liberato dall’umiliante denominazione “negro”, o che muoiano di malasanità, liberando lo Stato dalla loro pressione parassitaria, quelli della terza età che non è consono al bon ton indicare come “vecchi”.

Eh si, il politicamente corretto è una pacchia per la destra, che c’è eccome, perché sostiene la grande menzogna quella secondo la quale fascismo e razzismo sono reminiscenze del passato che si possono combattere  con gli strumenti monopolio del mercato, informazione padronale, scuola privata, carità e beneficenza, e non declinazioni del totalitarismo economico e finanziario. Perché anche in grazia di pandemia, censura la critica, quando chi la esercita viene assorbito dalla spirale del silenzio e dall’ostracismo che ne consegue. Perché vieta la violenza, salvo quella autorizzata dei poteri forti e applicata a norma di legge, per prevenire e reprimere la collera connaturata nella lotta di classe, l’unica che fa davvero paura.

Ma il successo più grande consiste proprio nel lavoro compiuto sulle percezioni e sulle coscienze, costrette a bearsi dei privilegi e dei beni che non possiede e che guarda come se fossero su una serie di Netflix, con l’illusione che siano “disponibili”, carriere politiche, spiagge dorate e “panorami mozzafiato” come quelli cui hanno diritto Gori, sindaco eroe secondo il Pd  a Formentera, o “notabiline” a Ischia in barca con l’allegra brigata di Italia Viva, oggetti di culto griffati e lauree in outlet accademici di remote località, reputazioni periodicamente  sanificate, immunità fuori dal gregge e impunità.