lav 2Anna Lombroso per il Simplicissimus

Mi succede di ripetermi, ma ho un’attenuante: troppe cose si ripresentano, spesso in forma peggiorativa. Come, ad esempio, la riduzione a flebile commemorazione e a celebrazione retorica di eventi, lotte e conquiste che avrebbero potuto renderci più liberi e migliori.

In questi giorni si ricorda che lo Statuto dei Lavoratori ( Legge 20 maggio 1970, intitolata ‘‘norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”) compie 50 anni e infatti puntualmente è arrivata puntuale la liturgia istituzionale. Così sembra paradossale che i giornali del 22 maggio 1970 titolassero: “La Costituzione entra in fabbrica”,  in un tempo, il nostro,  nel quale pare che la Carta sia uscita dai luoghi di lavoro, dalle case, dagli uffici, dalle piazze e dalle strade, se diritti che parevano meritati, acquisiti e inalienabili ci sono stati sottratti sostituiti da  elargizioni arbitrarie, mance discrezionali, riconoscimento limitato di prerogative e inclinazioni, il cui libero esercizio  è circoscritto a chi se le può permettere.

Ancora più paradossale è ricordare i perché dell’astensione del Pci, riassunti nelle dichiarazioni dei suoi rappresentanti alla Camera: “Ci siamo astenuti per sottolineare le serie lacune della legge e l’impegno a urgenti iniziative che rispecchino la realtà della fabbrica ….il testo definitivo contiene carenze gravi e lascia ancora molte armi, sullo stesso piano giuridico, al padronato”, come l’esclusione dalle garanzie previste dalla legge nei confronti dei lavoratori delle aziende fino a 15 dipendenti e la mancanza di norme contro i licenziamenti collettivi di rappresaglia, se pensiamo al ruolo giocato dal partito che negli anni a venire ne avrebbe dovuto perpetuare la vocazione e rispettare il mandato di rappresentanza e salvaguardia dei bisogni e delle rivendicazioni degli sfruttati.

Quel partito cioè che nelle sue ultime configurazioni, di nome e di fatto,  rivendica di incarnare il  “riformismo” e che ha  incrementato, appoggiando perfino le misure berlusconiane e grazie alla rimessa in uso, perverso, della cinghia di trasmissione con il sindacato, la frammentazione della classe lavoratrice, con una molteplicità di contratti di lavoro anomali. L’intento dichiarato e la strategia, riuscita, era pagare meno e isolare gli “occupati” e i sottooccupati ma a norma di legge, a cominciare dal decreto Tremonti, in linea con il Protocollo  del 23 luglio 1993, col quale le parti sociali e il governo concordavano  un  quadro di principi e di regole per rendere coerenti i processi contrattuali   con le politiche economiche e dei redditi in modo da il conflitto e allinearsi al Trattato di Maastricht.  E poi a seguire, sotto tutti gli esecutivi di Berlusconi, Prodi, D’Alema, Berlusconi, Amato, Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte, il pacchetto Treu, il decreto legislativo n. 368/2001, la legge Biagi, il collegato lavoro, e poi la legge Fornero, il Jobs Act, fino al decreto Dignità.

Adesso per una di quelle strane fatalità che ci consegna la storia, questo anniversario cade proprio quando la quarantena porta alla luce drammaticamente la struttura di classe della nostra società, dopo che  per anni hanno cercato di persuaderci che per molti motivi le differenze di ceto fossero superate, o diventate indefinibili e impercettibili per via del passaggio da una economia produttiva a quella “finanziaria”, certo, ma anche in virtù delle formidabili mutazioni che aveva prodotto il Progresso, grazie a quelle conquiste della scienza, si, proprio quella che dichiara impotenza e manifesta tracotante improvvisazione davanti a una prevedibile epidemia, e della tecnologia, si, proprio quella che doveva  risparmiarci dalla fatica manuale, donandoci quella condizione di onnipotenza virtuale, dal lavoro seduti sulla poltrona di casa a far cadere una bomba spingendo un bottone,  e in due mesi ha mostrato i limiti della sua inadeguatezza.

Tutto questo non è certo accaduto ora e per caso. Quello che è stato definito un cigno nero, per sottolinearne la imprevedibilità e rarità, mentre era nell’ordine “naturale” e tante volte ne era stato profetizzato il verificarsi, ha la qualità di una rivelazione che stupisce solo quelli che non volevano vedere. Sono quelli che rimuovono la triste epifania che ha reso ancora più profondo il solco che divide chi appartiene, forse temporaneamente o occasionalmente, a ceti che finora hanno conservato qualche bene, qualche privilegio, qualche rendita o qualche opportunità, qualche sicurezza e garanzia, qualche livello “superiore” di istruzione che attribuisce a chi lo possiede una malintesa supremazia morale, e gli altri,  che hanno già perso o stanno perdendo tutto.

Già i primi dati –  a metà aprile l’Inps denunciava  che la crisi sanitaria sta pesando maggiormente su precari, giovani e part time e che a essere colpiti sono i lavori “anomali”, le occupazioni saltuarie, quelle economie sommerse delle startup farlocche, dei B&B, dei franchising dei gelatai e pizzaioli –  dimostrano gli effetti di trent’anni di “flessibilità”, mobilità e  della cancellazione  di quelle tutele viste come impedimento per la competitività.

A una generazione di lavoratori  senza diritti, quando ormai ha preso piede la narrazione epica, resta solo da contribuire alla ricostruzione del dopoguerra, nella trincea dei cantieri riaperti per le grandi opere e le infrastrutture, che se non si devono tirar su i palazzi bombardati la macchina di pace della corruzione e del malaffare del cemento è pronta a rimettersi in moto. Oppure si apre per loro l’opportunità di tornare ai solchi bagnati di servo sudor come piace agli editorialisti che da anni denunciano l’indolenza dei ragazzi (salvo la loro prole), la leva degli scansafatiche colpevoli a un tempo di non essere abbastanza competenti, malgrado la Buona Scuola e le Università degradate a fucine per disoccupati specializzati grazie a un succedersi di riforme “progressiste”, e di avere troppe pretese, come se fosse una indebita pretesa non prestarsi per una paga da fame in pieno regime di “caporalato”. E infatti ci hanno pensato subito Bonaccini, che voleva mettere ai lavori forzati i percettori di reddito di cittadinanza, la Bellanova in veste di neo-lachrimosa, seguiti dai vertici di Confagricoltura che reclamano il ritorno beato ai vaucher, per usufruire dei servizi a poco prezzo di vari “ soggetti che possono lavorare con prestazione occasionale: pensionati, studenti nei periodi di vacanza, persone disoccupate che siano iscritte nelle liste di disoccupazione del centro per l’impiego, percettori di prestazioni integrative del reddito ovvero cassaintegrati, ecc”. In attesa dei quali è stata adottata una “sanatoria” rivolta ad un pubblico ristrettissimo di migranti a cui è scaduto il permesso di soggiorno e che potranno richiederne uno nuovo a patto che il vecchio sia scaduto entro il 31 ottobre 2019, quelli in sostanza già “regolari” ma soggetti a un rinnovarsi di ricatti e intimidazioni.

Così si ripropone con forza la questione salariale, esaltata dall’attuale contingenza che condanna a una sempre maggiore vulnerabilità sempre più soggetti, individui, famiglie di qualsiasi genere, età, etnia, in un paese dove si guadagna meno di 30 anni fa, a parità di occupazione, professione, livello di istruzione e gerarchico. E quando la minaccia di una invasione di immigrati che rubano il posto rivela la sua natura di grande distrazione di massa, perché le aperture a questo bacino di forza lavoro prevedono di esercitare la pressione intimidatoria per costringere tutti a un abbassamento delle remunerazioni, come a recedere da richieste e rivendicazioni, tutti parimenti ridotti a stranieri in patria, Terzo Mondo fuori e dentro i confini.

Come andrà per il lavoro nel Dopo Covid19, si è capito da subito, quando nella conferenza stampa dell’11 marzo Conte, interpretando le preoccupazioni di Confindustria ammette che in Italia si puù chiudere tutto, università scuole, parrucchiere, osterie, hotel, musei, ma non le fabbriche, pena l’estromissione dal mercato globale.  E quando dal giorno dopo si indicono scioperi e fermate in tutta Italia, nelle aziende dove si doveva arrivare pigiati nei mezzi di trasporto diradati e lavorare senza le mascherine salvifiche – soprattutto per la Pivetti, senza dispositivi sanitari, senza distanziamento, senza disinfezione, scatta immediata la reazione contro gli irresponsabili, la censura, il silenzio sulle loro proteste, l’anatema contro chi osserva che anche prima le condizioni sui posti di lavoro erano indegne dei più elementari criteri di profilassi e di sicurezza come dimostrano i dati sulle morti bianche, ma che il Covid19 ben lungi da imporre l’adozione di criteri e requisiti più stringenti aveva sortito solo l’effetto di limitare gli interventi unicamente all’emergenza e in forma “temporanea” e volontaria.

E poi si stupiscono se di fronte a queste disumane e feroci disuguaglianze l’unica autorità che sanno esprimere le élite e le leadership è la paura,  se l’unico modo mediante il quale la classe dominante rende naturale la sua egemonia è l’imposizione di un ordine economico e morale consiste nel reprimere autodeterminazione, nell’isolare gente che ha identità e interessi comuni perché non sappiano più riconoscersi e lottare insieme.

Pare non avesse ragione Gramsci a dire che il vecchio è morto e il nuovo non può nascere, se a perdere la vita e prematuramente sono gli anziani poveri, così come a perdere forza e visioni del futuro sono vecchie conquiste soffocate da un “nuovo” senza domani, senza lavoro, senza popolo.