bruttiAnna Lombroso per il Simplicissimus

Ieri una intelligente giornalista del Fatto Quotidiano, che poi è l’unico giornale che si può ancora leggere, benché ottenebrato dal culto della personalità del presidente Conte, ci ha reso partecipe della sua scoperta, sia pure con un certo ritardo su teorie storiche, filosofiche e psicoanalitiche, che le masse avrebbero sete di sangue, che esigono il sacrificio, l’ostensione e il culto dei loro martiri, così come  le società anche le più civili hanno bisogno di eroi.

Tutto vero e accertato, per carità, stupisce solo che se ne sia accorta in occasione delle esternazioni oltraggiose ai  danni di Silvia Romano, che, a suo dire, ma condivido largamente l’ipotesi tristemente suggestiva, avrebbe avuto celebrazioni unanimi se fosse arrivata sullo scudo, oppure macilenta e provata. Mentre pare non sia moralmente sopportabile che al suo arrivo abbia esibito con orgoglio l’abito tradizionale del luogo della sua reclusione e simbolico dell’appartenenza religiosa, che abbi fieramente rivendicato la sua conversione, che fosse sana addirittura più dei detenuti da virus come rivelava il suo sorriso   mostrato  anche nelle immagini della prigionia.

E dire che Daniela Ranieri, di lei si tratta, avrebbe potuto avere la stessa  rivelazione nei mesi scorsi quando il “governo migliore, se non perfetto”, che ci sia stato concesso dalla Provvidenza  per gestire l’emergenza, ha offerto  come in un rito barbarico a una  plebe ignorante, fanciullesca per irresponsabilità e  sventatezza, l’immolazione di alcuni in qualità di vittime del dovere e dell’abnegazione,  costretti a testimoniare del loro spirito di servizio, negli ospedali, nelle fabbriche, negli uffici e nei supermercati, nuove cattedrali della modernità, esponendosi  come agnelli mentre il resto del gregge stava a casa a assistere allo spettacolo online dei gladiatori nell’arena del virus.

Lei se la prende, e ha ragione, con gli odiatori, con le penne sessiste e qualunquiste, che fanno però da altoparlante ai borborigmi di pance oggi più vuote di prima, e che nessuno sta a ascoltare, che si sentono, pensate un po’, autorizzate dalla carestia immanente, dalla chiusura di piccole imprese, dalla sospensione di lavoretti part time, a porsi delle domande meschine sulle destinazioni di milioni concessi alla faccia del no alle trattive coi terroristi vigente per Moro come per i privati sequestrati dalla malavita, come se è domandato per altri, molti di più, elargiti, anche quelli di tasca loro, per il salvataggio di banche criminali, per l’acquisto di armamenti farlocchi, per l’aiuto dato alla sanità privata.

E’ che ormai  è quasi banale osservare che da anni la lotta di classe si consuma alla rovescia: ricchi e superricchi contro sfruttati. E adesso ci tocca anche vedere il populismo alla rovescia mosso dalle élite, che sbrigativamente possiamo definire come espressione del progressismo neoliberista, contro un ceto numeroso, ma appunto senza parola se si escludono esternazioni sui social o nelle Tv del dolore, e senza ascolto, salvo quello delle destre estreme.

Sono quelli cui una minoranza che rivendica superiorità morale, oltre che sociale e culturale, rinfaccia ogni giorno di essere una massa maleducata, ignorante, volgare, razzista, rancorosa, feroce, riottosa e accidiosa. Tutti vizi che una società civile acculturata e razionale, moderna e cosmopolita colloca sotto l’ombrello ideologico del “populismo”, un ombrello che si augurano si rovesci sotto le sferzate del vento della rinascita che dovrebbe seguire il cigno nero, come continuano a chiamare impropriamente  una epidemia, prevedibile e prevista, gonfiata a dismisura perché possa declinarsi secondo le regole di un sistema di governo mondiale, che promuove le crisi a emergenza in modo da dottare leggi speciali, applicare provvedimenti eccezionali, incaricare autorità straordinarie svincolate dal controllo democratico.

Insomma tocca proprio dar ragione a chi ha detto che populista è l’epiteto negativo che la sinistra appioppa per designare il popolo quando quest’ultimo smette di accordarle fiducia.

La verità però è che chi fa questo uso del termine, da anni ha rinnegato l’appartenenza a quel contesto, ha legato la sua sopravvivenza elettorale e culturale a un profondo stravolgimento, se non proprio capovolgimento, dei valori di testimonianza e rappresentanza degli sfruttati, convertendo la solidarietà in carità,  l’internazionalismo in cosmopolitismo, l’egualitarismo in meritocrazia, la coesione comunitaria in individualismo, l’autodeterminazione, caposaldo di una identità di popolo e di rispetto costituzionale,  in antistatalismo.

Non poteva essere diversamente se  chi si riconosce e milita per formazioni ridotte a parodia della sinistra,  non condivide e neppure conosce più le condizioni esistenziali: reddito, qualità dei servizi sociali, luoghi di vita, collocazioni e mobilità  sociale, dei ceti disagiati,  disprezzandoli per quello che affiora dai social, dalle interviste dei talkshow: il loro linguaggio e i loro convincimenti politicamente scorretti,  che diventano gli indicatori per la interpretazione dei comportamenti elettorali. Che infatti dimostra come dagli anni Cinquanta a oggi come, mentre in passato i voti degli strati meno abbienti e meno acculturati andavano a sinistra e quelli degli strati medio alti andavano al centro e a destra, oggi  le preferenze di voto si siano capovolte.

Non c’è proprio da stupirsi se abbiamo, per una volta uso il pronome noi, che le preferenze della “gente”, bloccate da leggi che hanno retrocesso le elezioni a sigillo notarile, premino la destra esplicita e rivendicata, quando è stata cancellata la rappresentanza parlamentare dei loro  bisogni da parte di un sedicente “riformismo”  posseduto dall’ideologia liberista che ha abiurato ogni aspirazione anticapitalistica, limitandosi all’impegno nominalistico e al minimo sindacale, per i “diritti civili”, come se quelli fondamentali fossero al sicuro, conquistati e inalienabili.

In tanti sostengono che il capitalismo nella fase attuale sembra pronto al suicidio. È improbabile, vista la sua capacità di risorgere come una fenice con altre ali e altre penne e nuova ferocia, mentre è sicura l’eutanasia, nemmeno tanto dolce di una sinistra che con  la sua dipartita ha prodotto la delegittimazione della democrazia, la demolizione dei principi delle carte costituzionali uscite dalle resistenze nazionali, e quella che è stata chiamata la secessione delle élite, appunto, ripiegate nella conservazione, ormai solo apparente, di beni, privilegi, accesso a carriere e opportunità, istruzione, grazie ai quali vivificano la percezione di un primato sociale e morale.

Ma si tratta di una supremazia labile e effimera, già minacciata dal rinnovarsi dell’austerità che consegna i paesi al sistema bancario e finanziario, aiutata da governi e partiti (o quel che ne resta) interpreti e testimoni di una scrematura beneducata, civica, tollerante, ragionevole e che reclama  un’autorità lontana e indifferente ai bisogni di quella gente incattivita, rancorosa, ignorante, rozza. Quella  che va educata col bastone più che con la carota, per proteggere chi si muove sotto le insegne della civiltà, del realismo e dell’amore per “diritto di nascita”,  confinando e annientando quei fermenti che si agitano ai “margini”, come li definisce qualche sociologo, ostili e inumani, risentiti perché per propria colpa non si sarebbero meritati di conservare o di conquistare lo status di ceto medio.

E come non sospettare che serva a questo l’attuale sospensione di una normalità che già costituiva il “problema”, la minaccia ripetuta ossessivamente che lo stato di emergenza dichiarato e prolungato si possa ripetere diventando forma corrente dell’esercizio del potere, la eventualità che il parlamento  venga sostituito di fatto da un management della crisi permanente con l’inevitabile, spacciata come doverosa,  rimozione dei diritti e dello stato di diritto, per tutti, cittadini italiani e ospiti temporaneamente sottratti alla pena dell’invisibilità e dell’irregolarità.

Come vuole chi, dalle poltrone dei palazzi, dai desk dei giornali, dai divani davanti alle sgargianti serie che ritraggono il declino dell’Occidente, è convinto che l’abbandono del popolo al suo destino antropologico segnato dal regresso a condizioni animali, sia un elemento distintivo morale e marcatore di superiorità, autorizzando i “migliori” a odiare i “peggiori”, poveri, sporchi, brutti, cattivi. Appestati.