Ora potremmo facilmente dire che Silvia Romano incarna nelle sue forme più caratteristiche la celebre sindrome di Stoccolma che induce il rapito a mettersi dalla parte del sequestratore, anche se tutto questo fa parte di una tradizione giornalistica e narrativa, ma non è classificata nella psicologia e può essere al limite ritenuta un caso particolare di rapporto traumatico quale quello che spesso si sviluppa nelle donne dominate con la violenza. E ce la potremmo cavare facilmente, ma attenzione, provare una sorta di simpatia per il carnefice, arrivare a comprenderne e ad appoggiarne le ragioni fino alla complicità masochistica, non significa sposarne in toto le visioni e le credenze. La conversione all’Islam insomma è qualcosa di non necessario dentro questo meccanismo, ma che è venuto spontaneo a una ragazza nata e cresciuta a contato con il nulla del pensiero unico occidentale, che ormai vive di un individualismo claustrofobico, di una separazione sociale intrinseca e in un continuo senso di sospetto e di competizione con gli altri che sono il terreno sul quale è attecchita la malapianta della paura e l’accettazione supina della segregazione. Non c’è forse persona più aliena di me dalle fumisterie metafisiche delle religioni positive e tuttavia il senso del sacro, dei valori non barattabili, di un avvenire diverso da costruire, del riscatto dalla disuguaglianza e dallo sfruttamento, del significato intellettuale ed esistenziale della speranza collettiva, persino del progresso è stato spazzato via da una tecnocrazia vuota, acefala e apolide che ha conquistato tutti gli spazi compresi quelli della religione di facciata che mai come oggi appare come mero strumento di potere che balbetta quando si tratta di interpretare il mondo. Quindi non dobbiamo stupirci se una ragazza che dopotutto annaspava alla ricerca di qualcosa di indefinito, ma finalmente di umano – anche se poi incautamente affidato a imprese caritatevoli a dir poco opache e lucranti – si sia lasciata incantare da una qualche fede fosse pure feroce, ma che comunque esprime una dimensione che ormai ci è completamente estranea.
Il vero scandalo di Silvia, siamo noi che non ci accorgiamo della vacuità rutilante nella quale siamo immersi e non riusciamo a ricostruire un mondo nel quale vivere non sia solo un istinto e un eterno immediato presente, ma qualcosa degno di essere vissuto.