unoAnna Lombroso per il Simplicissimus

Ma quanto tempo è passato, che cosa è successo, da quando eravamo una delle “gemme” dell’Occidente, quando il “sistema Paese” poteva esibire le sue credenziali di potenza industriale, di “culla della civiltà” ricca di memorie, opere d’arte, monumenti e paesaggi che popolavano l’immaginario del mondo, quando c’erano ingegni e talenti creativi che ci invidiavano e che avevano costruito il mito del Made in Italy?

Sarà stato vero, o adesso ci tocca fare i complottisti a posteriori? e scoprire che quella era solo l’apparenza, una narrazione raccontata per farci sentire al sicuro nel migliore dei mondi possibili, dove bastava uniformarsi ai format esistenziali degli “arrivati” per raggiungere successo, bellezza, quattrini, notorietà, dove chi produceva si meritava di guadagnare, pretendere e spendere. Che se poi non ci riuscivi, voleva dire che era colpa tua, che non possedevi le qualità necessarie per sollevarti dalla condizione di sfigato.

Vuoi vedere che non ce ne siamo accorti? cullati dal mantra recitato dal Progresso con le sue promesse di onnipotenza: salute, scoperte spaziali, fine della fatica grazie ai robot, viaggi, parlarsi e vedersi con gente che sta agli antipodi, e addormentati dalla ninnananna della realtà parallela dello spettacolo: processi svolti in studi televisivi, simulazioni della vita e delle relazioni in case di cartapesta, gare, giudizi e voti virtuali, confessioni, lacrime, ricongiungimenti e anatemi letti sul gobbo, ostensione di dolore, nascite e morti in modo da separarci dalla vita esiliandoci nella finzione.

Ma intanto si preparava la resa dei conti: la  punizione per aver voluto troppo, le rimostranze e le pene per il reato di dissipazione di risorse e ricchezze, così avida e dissoluta da farci meritare il rancore delle generazioni a venire cui non abbiamo garantito il nostro “stile di vita”, il fantasma di disuguaglianze sempre più feroci, che da remote, si fanno sempre più vicine e presenti come una minaccia incombente che non vogliamo riconoscere sperando che così evapori.

Quel fantasma si è fatto via via sempre più materiale e concreto, e adesso scopriamo che la nuda vita, la sopravvivenza valgono più di tutte, di libertà, dignità, autodeterminazione, legittimando i sacrifici “morali” nostri, se apparteniamo alla cerchia di chi si difende stando a casa, rinunciando a spostamenti, affetti, istruzione, piaceri, e autorizzando perfino quello della vita degli altri se è vero che il pericolo è mortale e qualcuno, più essenziale, deve esporsi per assicurarci merci, prodotti, la corrente per il Pc, l’acqua, il gas per cuocere i rigatoni di cui abbiamo fatto incetta, per produrre le mascherine che non servono a niente se non come brand per speculatori eccellenti e come divisa unificante per il popolo della ricostruzione.

Così ci è stato rivelato che cosa è diventato il lavoro nel Paese che ha dato alla storia navigatori e poeti e quali sono le attività così essenziali da poter diventare fatali, più del solito se pensiamo al prima , al mese di gennaio nel quale sono state registrate le morti   di 52 persone in incidenti sul lavoro, otto in più rispetto alle 44 registrate nel primo mese del 2019, se la sua fine con la demolizione dell’edificio di conquiste e garanzie, dalla cancellazione dell’Articolo 18 alla Legge Fornero e al Jobs Act, imposti con la correità delle rappresentanze sindacali, ha ridotto questa giornata alla celebrazione della sua memoria officiata virtualmente sulle rovine.

In attesa che metro, bus, treni vengano dotati dell’apposita segnaletica relativa al distanziamento, che diventi obbligatoria la bardatura di maschere, guanti, separé, finora affidata all’arbitrarietà bonaria dei datori di lavoro grazie a un protocollo scellerato che concedeva alle imprese totale e volontaria discrezionalità, mentre si proibivano gli scioperi e le rivendicazioni di sicurezza e tutele, si è sancito che le mansioni e gli impieghi fondamentali e indispensabili per la tenuta del Paese, ex grande potenza industrializzata, sono i pony, i camionisti, i facchini, i magazzinieri, gli “scaffalisti” e le cassiere dei supermercati, e poi gli operai che ci avevano detto non esistessero più, retrocessi da aristocrazia del lavoro a pretenziosi parassiti che perdevano al concorrenza con omologhi e speculari in posti dove era favorevole la delocalizzazione, e oggi promossi a martiri.

E poi qualche elettricista dell’Enel, qualche  tecnico di Tim o della Vodafone sempre nel cuore del commissario così straordinario da poter dirigere la ripartenza da Londra per non perdere tempo con la nostra raffazzonata quarantena, i dipendenti delle aziende che producono armamenti, che finché c’è guerra c’è speranza, qualche bancario a rotazione impegnato nell’elargizione della carità pelosa sostitutiva del reddito di emergenza passato da 3 miliardi a due e poi a meno di uno, in qualità di piazzisti per prestiti a pronta restituzione.

L’impostura narrata di un futuro esente dalla fatica manuale grazie all’automazione si è concretizzato in forma distopica mettendo insegnanti, professionisti, consulenti all’opera davanti al pc, soli, disuniti, isolati, senza riconoscimento di classe, senza possibilità di rappresentanza e coscienza dei propri diritti. E spesso senza rete, sa la banda larga è tema caro all’immaginario dei clan della Leopolda o dei Casaleggio mentre invece in intere aree del paese la rete è inaccessibile o soggetta alle bizze delle divinità digitali.

E siccome la libertà è diventata un accessorio cui in presenza di situazioni di emergenza e stati di eccezione,  così come i diritti e lo stato di diritto, si rivedono i criteri che attribuiscono carattere di “indispensabilità” a certi mestieri, per autorizzare l’oltraggio e le violazioni legalizzate.

Così se servono braccianti per sostituire gli immigrati nel lavoro die campi, con la benedizione della ministra, del presidente di regione progressista e della sua coraggiosa vicepresidente, con il sostegno di buona parte dell’opinione pubblica più benpensante si propone il caporalato di Stato, proponendo che vengano impiegati  gli indegni beneficiari del reddito di cittadinanza   in modo  che così restituiscano  “un po’ quello che prendono” (ne ho scritto qui: https://ilsimplicissimus2.com/2020/04/19/lex-compagno-malaccini/ ) in attesa probabilmente della coscrizione obbligata, degli assoldamenti dei giovani poveri come ai tempi delle navi della marina inglese, una botta in testa e a bordo, in modo da non dover sottostare ai lacci e laccioli dei contratti, delle giuste remunerazioni, degli orari rispettosi di salute e sicurezza.

E d’altra parte anche prima della “guerra” dichiarata, pare, anche per garantire che la ricostruzione riconfermi la bontà delle disuguaglianze, il primato di avidità e accumulazione per pochi e delle rinunce doverose per tanti, si era già ripristinato il cottimo.

e infatti altro non è che cottimo, quello dei “lavoretti” ormai diffusamente definiti “alla spina”, quelli che si crede di scegliere in forma estemporanea e provvisoria e che garantirebbero una certa libertà, perché il padrone non si vede, si ha licenza di determinarsi orari e percorsi della distribuzione delle pizze, della produzione della ricerca commissionata 5 euro a pagina, della consegna dei pacchi in bici, della conversione delle due camere dei fratelli sposati e di casa dei nonni al paesello in B&B, da mesi vuoto senza speranza, del pilotaggio di droni, del part time delle casalinghe che scoprono sui sociale come di può diventare ricche da casa, né più né meno come le guantaie campane, le magliaie venete, che fecero la fortuna dei distretti. Tutte quelle attività insomma che nutrono l’illusione di una indipendenza che è solo un altro modo per chiamare la precarietà più crudele, il nuovo eufemismo per definire la servitù.

Ci sono produzioni, mansioni, vocazioni, talenti, professioni che verranno spazzate via non dall’epidemia ma dalla sua gestione insensata e illogica, che farebbe preferire fosse dettata da un disegno cospirativo del quale potremmo chiedere ragione, perché supera addirittura la smaniosa volontà speculativa e smodata del “mondo di impresa”, senza un piano di investimenti, reso impossibile dall’accettazione delle parole d’ordine imperiali: maggiore liquidità, maggiore indebitamento, egemonia bancaria, a fronte dell’impotenza a agire e spendere, agitata da governo come alibi per l’incapacità e l’indole alla soggezione a chi comanda davvero.

Ma il fucile spianato perché si scelga tra sopravvivenza  e vita, tra salute e salario, pare abbia vinto, c’è poco da sperare nel riscatto davanti alle serrande dei forni. Anche se sempre di più per mantenersi sani, come per accedere a diritti sempre più rarefatti, serviranno quattrini per pagarsi l’affiliazione alla sanità dei fondi, delle assicurazioni, delle polizze consigliate dai patronati, delle cliniche e dei luminari in prestito dai talk show.

Attenti a dire buon primo maggio, se fino a poco tempo fa era un vecchiume retorico, adesso è una bestemmia.