cotone Anna Lombroso per il Simplicissimus

A volte ci si illude che il tempo che passa stenda un velo di polvere pietoso sulle stronzate, invece no. Sembrano sepolte e dimenticate e invece no, a farle riaffiorare dal loro elemento naturale basta una campagna elettorale, un virus che dà modo a qualsiasi bocca in astinenza da intervista di masticare e espellere i suoi pensierini, in questi giorni propiziatori di bei sentimenti patri, purché non sovranisti, compassionevoli, purché non populisti.

Era successo durante il duello impari tra il presidente uscente riformista e la candidata del Gran Buzzurro, e succede ora, con il riaffacciarsi della retorica da sussidiario o da fumetti del Pioniere,  del cosiddetto modello emiliano, quel concentrato di sviluppo e di buon governo, propalata come una utopia realizzabile e realizzata e resuscitata periodicamente grazie a defibrillatori e  bomboloni di propaganda ittica in qualità di format progressista, educato e rispettabile da opporre alla destra sboccata e sguaiata.

E infatti ci ha pensato Bonaccini sfoderando le sue ricette istantanee per rispondere ai bisogni della sua regione e partecipare del grande progetto della ricostruzione post-pandemica, più modestamente definita Ripartenza.

Il suo new deal ruspante come si addice alla tradizione della pingue Emilia-Romagna, concreta e operosa, prevede di allestire con le parti sociali un bel programma concertato per riavviare gradualmente “le filiere a valenza internazionale e i cantieri delle opere pubbliche”, approfittando come è giusto della sua santa in paradiso, la Ministra della sua terra, che sta tenendo in caldo la zuppa di infrastrutture, interventi viari, passanti, bretelle ( 20 miliardi di euro di investimenti in 5 anni) confezionata manco fosse il Farinetti di Eataly, per garantire una bella scorpacciata godereccia che sfami la bulimia costruttiva del Pd e delle cordate amiche (compagne non si usa più) le coop del cemento e non solo un tempo rosso, a braccetto con i più inveterati malaffaristi, corruttori e corrotti che fanno dentro e  fuori da consigli di amministrazione e aule giudiziarie.

Ma come se non bastasse, per l’immediato, il presidente ha pronta la sua prescrizione per fronteggiare l’emergenza dei campi e delle coltivazioni abbandonate da quegli sfaccendati, indolenti e codardi dei lavoratori stranieri stagionali, cui il suo partito ha guardato a intermittenza come a risorsa profittevole incaricata di svolgere mansioni servili antropologicamente appropriate o come a problema da risolvere con doverose limitazioni, numeri chiusi, regolarizzazioni al bisogno, grazie alle disposizioni messe a punto dal mai abbastanza rimpianto ministro Minniti, più composte e educate di quelle forgiate a immagine e somiglianza dal successore.

Cosa ti ha pensato lui, il Bonaccini, confortato da analoga ipotesi messa a punto dalla ministra ex bracciante? È semplice, per raccogliere le ciliegie di Vignola, le Decana e le Kaiser di Reggio, i meloni di Cremona,  si dovrebbe ragionevolmente disporre della forza lavoro “di chi prende il reddito di cittadinanza” in modo  che così restituisca “un po’ quello che prende”.

Vi ricordate una volta, un tempo felice dopo le lotte delle Leghe, le rivolte contadine, le battaglie della mondine, e poi lo Statuto dei Lavoratori, l’articolo 18?

Basta, tutto cancellato, proprio grazie a chi campa ancora, anche se con sempre minore consenso, sulla rivendicazione flebile e pallida di una tradizione, sulla testimonianza sempre più afona e incolore dei bisogni degli sfruttati da sfoderare il Primo Maggio a margine del concertone.

Ha subito una festosa accelerazione il passaggio dal lavoro alle occupazioni alla spina, al volontariato obbligato, al part time coatto, al precariato ricattabile, ai contratti anomali, in modo da arrivare alla leva obbligatoria come per i galeotti sulle navi, o i coscritti a scavare buche e riempirle in una sterile ammuina, in nome, in questo caso, di una doverosa gratitudine da esigere da parassiti e mangiaufo.

Siamo addirittura un bel po’ arretrati rispetto allo slogan “il lavoro rende liberi” se in questo caso la fatica deve essere grata e gratuita per saldare un debito morale, e anche rispetto alle piantagioni di cotone se dalla Tara targata Bologna, il presidente guarda ai suoi zii Tom come al suo terzo mondo interno in sostituzione di quello esterno, da sfruttare sui solchi bagnati di servo sudor, in modo che lavorino per i privati pagati dallo Stato, cioè noi.

Così da far rientrare quelle occupazione nei lavori di pubblica utilità a cui sono tenuti i percettori del reddito di cittadinanza con l’effetto di pagare gli “addetti”  meno della metà del salario previsto dai contratti collettivi di lavoro e di penalizzare  le aziende rispettose delle regole e i piccoli  agricoltori che non hanno dipendenti.

C’è da sospettare che questa ipotesi sia gradita a tutto l’arco costituzionale: si tratta proprio una soluzione che mette d’accordo tutti. Basta prolungare a tempo indeterminato l’emergenza, chiudere frontiere e porti a tutela della salute pubblica, reclutare gli  scrocconi e impegnarli pedagogicamente in lavori di pubblica utilità a beneficio dell’utilità privata, così nessuno potrà lamentarsi delle invasioni bibliche, del caporalato promosso a agenzia interinale, della molesta presenza di stranieri che rubano il salario agli italiani.

Qualcuno ingenuamente dirà, ma allora bastava Salvini. Proprio vero.

Con il suo genuino e schietto candore il Bonaccini che vuole più autonomia nei settori della scuola e dell’università, dell’energia, delle grandi infrastrutture, dei beni ambientali e culturali,  delle casse di risparmio e delle ferrovie locali, e non ultimo, della sanità, viste le performance in corso, si propone come icona rappresentativa, a testimonianza vivente e emblematica  del fatto che destra e riformisti sono ugualmente e entusiasticamente al servizio dell’ideologia liberista.

Non a caso ho scritto “riformisti”, avrei potuto scrivere progressisti, insomma impiegando una di quelle definizioni che hanno perso ancora più senso del termine “sinistra”, ormai obsoleto e inadeguato se lo usano ancora come improperio o minaccia Berlusconi a Nizza, Feltri alla consona toilette, Mentana rimpiangendo l’Esule, i fedeli incrollabili dell’Europa che giurano in nome dell’oblio delle carte costituzionali troppo condizionate dalle lotte di liberazione nazionali. Che ormai concordano nel ritenere che Sanders o quelli di Podemos, Mélenchon o Corbyn  siano pericolosi sovversivi né più né meno dei lontani congressisti di Bad Godesberg.

Così il diplomato, che vanta nel suo scarno curriculum solo esperienze professionali di funzionario senza Frattocchie presto promosso a carriere elettive, va a ricoprire il prestigioso incarico di interprete  (in compagnia della sua “Coraggiosa” vicepresidente sempre audacemente allineata sulla secessione, sulle trivelle) di quello che è stato chiamato il neoliberismo progressista, feroce quanto quello bancario, finanziario, poliziesco, con in più l’amaro sapore del tradimento di ceti già penalizzati nei livelli di reddito, qualità dei servizi sociali, luoghi di vita, mobilità sociale e fisica, istruzione e cultura, che sarebbe diventato lecito disprezzare, opprimere.

Fa capire che sarebbe equo sfruttarli, perché colpevoli di ignoranza, inadeguatezza a standard di arrivismo e ambizione, egoismo. Perché non consoni al trasformismo che ha interessato le stelle polari della sinistra rinnegata: la solidarietà convertita in beneficenza, la fratellanza in competitività, l’internazionalismo in  cosmopolitismo, l’egualitarismo in meritocrazia, lo statalismo in assistenzialismo in favore dei privati e del padronato, il lavoro in servitù.

Con gente così possiamo maturare un’unica certezza, andrà tutto male.