neo Anna Lombroso per il Simplicissimus

Siccome ogni volta che ci si esprime bisogna preliminarmente esibire curriculum, referenze,  e predisporre una dichiarazione di political correctness a propria discolpa, specialmente quando ci si vuol sottrarre all’affiliazione a curve e schieramenti precostituiti, anticipo che la violenza sessuale è un crimine odioso che va perseguito  e represso con particolare severità, soprattutto quando viene commesso ai danni di creature più vulnerabili ed esposte e quando chi lo consuma gode di una posizione gerarchica o psicologica “superiore” e “protetta”, proprio come nel caso della tortura, che lo fa sentire esente da regole, leggi e imperativi morali offrendogli condizioni di immunità o impunità, proprio come nel caso dell’Ilva.

Ciò premesso considero inquietante l’anatema scagliato contro Polanski, vincitore del Cèsar per aver diretto J’accuse, dalla regista Cèline Sciamma, l’altra autrice  in lizza per il primo premio con il film Ritratto della giovane in fiamme, e dalla sua protagonista l’attrice Adèle Haenel, che, è stato notato, hanno lanciato la loro maledizione in un movie on the movie di j’accuse con un Vergogna!  e un “Bravo à la pédophilie”  gridati, ripresi e diventati virali in rete, proprio al momento della consegna del premio, facendo pensare  all’indispettita esecrazione per il trionfatore più che per il reo.

E infatti a gettare l’ombra del risentimento degli sconfitti sulla scomunica tardiva, è stata proprio la tempistica che ha fatto scegliere per la sdegnata epurazione dall’interno proprio la cerimonia pubblica con tanto di télé e giornalisti da tutto il mondo, mentre invece i soci dell’Académie des arts et techniques du cinéma, si erano già dimessi molto prima, Brad Pitt aveva cortesemente rifiutato il premio alla carriera e da giorni associazioni femministe avevano protestato innalzando cartelli  contro Violanski.

Come è giusto Roman Polanski paga in consenso e popolarità il delitto confessato nel 1977, quando ammise di aver consumato “un rapporto sessuale extramatrimoniale” con  una tredicenne, Samantha Geimer, reato per il quale  è ancora sorprendentemente “sulle sue tracce” l’Interpol e che appunto è turpe e ripugnante anche qualora non ci fosse stata violenza, perché un maschio autorevole, prestigioso, famoso esercita una potenza sopraffattrice anche se in forma psicologica e solo “persuasiva”.   Ed è sfuggito alle maglie della giustizia, per prescrizione, nel caso dell’accusa di stupro, rivoltagli 44 anni dopo il fatto, da  Valentine Monnier, giusto giusto l’8 novembre, cioè alla vigilia dell’uscita francese dell’ultimo film.   Altre donne poi pare abbiano sollevato addebiti analoghi, anche quelli postumi e che hanno avuto come teatro fori virtuali e gogne mediatiche, invece di uffici di polizia e tribunali.

Non voglio biasimare la natura e la qualità di queste incriminazioni a posteriori, accese come una miccia e non casualmente si direbbe, solo quando si è creato un clima favorevole alla condanna dell’opinione pubblica, in assenza di processi.  Non lo faccio perché è purtroppo vero che da sempre, dalla mitologia a Artemisia, dal Circeo alle vittime convertite dai magistrati in furbe adescatrici o spericolate provocatrici per via di abbigliamento arrischiato e incauta presenza a rave o apericena, la rivelazione e la denuncia dell’oltraggio subito  sono un onere e una pena che si aggiungono allo stupro con un carico di violenza e ingiuria,  capaci di trasformare il dolore in vergogna, tanto  che può sembrare preferibile e raccomandabile rinunciare alla tutela della propria persona e della propria dignità, nascondendo l’umiliazione  e lo sfregio.

Ma è anche vero che la denuncia, soprattutto da parte  di donne che hanno una tribuna e la possibilità di usare tutti gli strumenti per la propria difesa con maggiore forza, per via dell’appartenenza a ambienti e cerchie più acculturate e privilegiate, è un diritto, ma anche un dovere che si deve compiere in nome della salvaguardia e della protezione di  altre donne che potrebbero subire e subiscono lo stesso danno.

Perché se il privato è politico, come abbiamo sostenuto per anni, allora si tratta di una responsabilità civile e collettiva che va assunta ed esercitata con forza, se non si è tredicenni, se non si è in stato di soggezione fisica, morale o culturale come accade alle schiave del sesso deportate, a mogli che ritengono che faccia parte delle prerogative coniugali soggiacere a vessazioni bestiali, anche per proibire a chi a vario titolo si presta a difendere quelle che per secoli i giudici hanno definito virili  e naturali persuasioni o delicate ingiunzioni,  di far sospettare che si tratti della ricerca del solito quarto d’ora di celebrità di attricette a caccia di notorietà e consenso.

E quindi al plotone in smoking e merletti sul red carpet dovremmo tutte e tutti preferire la condanna della giustizia, con il biasimo che ne deriva rivolto al colpevole non alla sua opera artistica o professionale. Perchè se è vero che Hannah Arendt e i suoi allievi avrebbero dovuto pretendere che Heidegger non subisse la sconcia fascinazione del nazismo, imperdonabile in chi ha l’onere di interpretare e definire i modi del pensare, del conoscere e dell’agire, non è ragionevole ritenere moralmente accettabile rinchiudere e chiudere la bocca a Assange fantasiosamente denunciato per stupro, censurare la Gioconda per via delle accuse di sodomia e pedofilia rivolte a Leonardo, mettere all’indice le poesie di Cèline o i Canti del povero Pound già offeso per l’abuso ai suoi danni dei una formazione che, quella sì, dovrebbe essere oscurata per apologia di reato, o coprire pudicamente i quadri di Caravaggio, baro, violento, brutale attaccabrighe e  forse assassino.

Questo non significa che dobbiamo riconoscere una inviolabilità del talento, una superiorità morale della creatività e del genio che debbano esonerare dall’obbedienza a imperativi etici e leggi civili, perché allora avrebbero avuto ragione le gerarchie ecclesiastiche a rinviare le sentenze sui preti pedofili al giudizio di Dio e non a quello dei tribunali, limitandosi alla esecrazione, come se la tonaca o la casacca da pittore attribuissero carattere di sacralità a chi li indossa.

Al contrario si dovrebbe ristabilire il rapporto di fiducia delle donne e degli uomini nei confronti della legge, esigendo che non venga eseguita come un’operazione aritmetica, ma con giudizio e trasparenza, in modo che nessuna vittima possa sentirsi colpita due volte e nessun colpevole, nemmeno il più prestigioso, nemmeno il più autorevole, nemmeno il più influente possa sentirsi dispensato dal pagare per il suo reato.

Pur nutrendo a volte nostalgia per i tribunali del popolo e un certo affetto per le tricoteuses, dovremmo preferire la giustizia al giustizialismo, limitare la portata delle giurie di genere (maschile o femminile che sia) e di lobby,  perché non trionfi la legge del più forte, si tratti non solo del lodevole imprenditore, ma anche del venerato poeta, del celebrato regista, se dietro alla loro fama c’è la colpa, ma senza che la fedina penale sporca  imbratti opere che hanno aiutato donne e uomini ad essere liberi di difendere i loro diritti.