Danza-macabraAnna Lombroso per il Simplicissimus

Non si sa quando la “morte nera” cominciò ad aggirarsi con la falce luccicante in giro per l’Europa: pare che a portarla fosse stata una nave di mercanti genovesi scampati da Caffa in Crimea quando la città fu occupata dai Tartari. Era stato probabilmente quel bastimento carico di pellicce tarmate e sorci pulciosi a recare il tremendo flagello a Messina nell’ottobre del 1347 e di là a Tunisi, da dove si diffuse nell’Africa settentrionale e da lì, attraverso la Penisola iberica e le isole del Mediterraneo, in tutta l’Europa.

La chiamarono peste da “peius” per indicarla come “la peggiore malattia”. Tra il 1347 e il 1350 l’epidemia uccise da un terzo a metà della popolazione europea,  tra i venti e i venticinque milioni di persone e più. A Firenze, dove in pochi potevano trovare riparo sulle colline, magari nella Villa Paradiso di Niccolò Alberti dove Boccaccio riunisce sette giovani dame e i loro tre cavalieri, la popolazione scese da 75 mila abitanti e 45 mila. E a Venezia nei diciotto mesi dell’infuriare del morbo morirono, secondo i dati dei censimenti della Serenissima negli anni  1347-1349 la città perse  i tre quinti dei veneziani.

La grande strage era stata preceduta da vari fenomeni che fecero pensare a una maledizione o a una punizione divina: condizioni climatiche avverse che avevano fermato le produzioni agricole, carestie: la gente non aveva di che sfamarsi e, indebolita, fu più esposta al contagio. La  recessione colpì anche le grandi banche fiorentine trascinando i Bardi e i Peruzzi nella bancarotta  che aveva avuto origine, pare, dall’insolvenza della casa regnante inglese.

Erano altri tempi e contro una certa storiografia Braudel racconta che poi, dopo quelle emergenze, l’Italia rifiorì e riconquistò il suo primato per tutto quello che è stato definito il Secondo Rinascimento, dimostrando quindi una volta di più che le epidemie e le crisi sono ricorrenti, ma lo è meno la rinascita.

Ancora più dei testi di storia sarebbe da rileggere un grande romanzo del ‘900, la Peste appunto, di Albert Camus, che narra  di un terribile flagello che si abbatte su Orano, cominciato con una  moria di topi che vengono trovati morti a migliaia a ogni angolo della città, nell’indifferenza di tutti.  Ma  è solo la prima avvisaglia di quello che aspetta la città, chiusa da un cordone sanitario per circoscrivere la sua violenza devastatrice e dove gli abitanti reagiscono chi barricandosi in casa e chi invece dedicandosi a piaceri e trasgressioni prima proibite come per un presagio di morte e chi speculando sulla catastrofe. Quando infine si trova la cura, il sollievo fa dimenticare la tragedia, la città  è in festa, solo qualcuno,  inascoltato, si rivolge alle autorità per ribadire la necessità di una prevenzione contro un eventuale futuro ritorno della peste, i cui bacilli possono restare inerti per anni prima di colpire ancora.

E infatti, per tornare dal romanzo alla cronaca del passato, le epidemie si riaccendono: a Venezia nel    1423 una nuova virulenza miete  40 vittime al giorno, tanto da convincere il Senato decimato (50 famiglia patrizie furono sterminate dal morbo) a chiudere la città agli stranieri provenienti da zone “a rischio” e a destinare un’isola a luogo di isolamento con la costruzione di un ospedale permanente, il Lazzaretto.

Eccellentissimo monsieur d’Audreville, vi racconterò quei terribili giorni solo perché sono convinto che senza memoria non c’è storia e che, per quanto amara, la verità è patrimonio comune”. A scrivere è Alvise Zen, passato alla storia come il “medico della peste”, che si rivolge a un amico qualche anno dopo la nuova epidemia che decima la popolazione di Venezia in due ondate successive, nel 1575 e nel 1630. …Nemmeno le guerre e le carestie offrivano uno spettacolo così desolato….. La Repubblica approntò subito una serie di provvedimenti per arginare l’epidemia: furono nominati delegati per controllare la pulizia delle case, vietare la vendita di alimenti pericolosi, chiudere i luoghi pubblici, perfino le chiese. I detenuti vennero arruolati come “pizzegamorti” o monatti. Potevamo circolare liberamente solo noi medici…. Indossavamo una lunga veste chiusa, guanti, stivaloni e ci coprivamo il volto con una maschera dal naso lungo e adunco e occhialoni che ci conferivano un aspetto spaventevole…..Non c’era più chi seppelliva i cadaveri. Per i canali transitavano barche da cui partiva il grido “Chi gà morti in casa li buta zoso in barca”. Per le strade cresceva l’erba. Nessuno passava. Illustrissimi medici dell’università di Padova, chiamati per un consulto, disconoscevano addirittura l’esistenza del morbo; guaritori e ciarlatani inventavano inutili antidoti; preti e frati indicavano nell’ira divina la vera causa di tutto quell’orrore calato su Venezia”.

Nel 1500 il numero dei veneziani  ammontava a circa 120.000 abitanti, nei settant’anni che seguirono, la popolazione urbana aumentò fino 190.000 abitanti, finchè  due pestilenze, quella del 1575-1577 e quella del 1630-1631 ridusse di più di un terzo la comunità veneziana.

Non occorre ricorrere all’allegoria di Camus che verso la conclusione  descrive il ritrovarsi  delle coppie separate dalla quarantena: “Queste coppie estatiche, strettamente unite ed avare di parole, affermavano in mezzo al tumulto, col trionfo e l’ingiustizia della felicità, che la peste era finita e che il terrore aveva fatto il suo tempo. Negavano tranquillamente e contro ogni evidenza che noi avessimo mai conosciuto un mondo insensato, in cui l’uccisione d’un uomo era quotidiana (…) negavano insomma che noi eravamo stati un popolo stordito, di cui tutti i giorni una parte, stipata nella bocca di un forno, evaporava in fumi grassi, mentre l’altra, carica delle catene dell’impotenza e della paura, aspettava il suo turno”, e meno che mai a XFiles  per avere conferma che la peste c’è fuori  e dentro di noi, che è la malattia del vivere il cui microbo non guarisce se non lo preveniamo e curiamo e comunque non è mai detto che sia debellato.

Perchè è quella combinazione di indifferenza e indolenza che ci fa preferire non vedere e non sapere che siamo esposti, potenziali vittime, con una differenza rispetto alla concezione manzoniana che la interpretava come una livella che faceva giustizia “superiore” in un mondo diviso che guarda ai poveri come sottodotati di “personalità morale profonda” e di autocoscienza dell’oppressione, dove  la morte nera abbatteva ricchi e straccioni.

Mentre invece la contemporanea catastrofe progressiva con il corredo di intimidazioni, ricatti, paure alimentate ad arte, guerre convenzionali remote e quelle interne contro altri Terzi Mondi, continua a stringere un cordone sanitario a protezione di chi ha e pretende di avere sempre di più, delle sue fortezze chiuse nel timore che la plebaglia, i barbari affamati e incolleriti abbattano le porte e facciano irruzione calpestando i tappeti pregiati, spaccando gli specchi e le cristallerie, riprendendosi quello che è stato loro sottratto, erigendo Colonne Infami contro untori, streghe, ribelli.

E non è una peste al rallentatore, a bassa intensità quella che accende di tanto in tanto focolai di virulenza, ma che ha via via decimato la popolazione veneziana dai 175 mila degli anni ’50 dello scorso secolo ai meno di 53 mila di oggi?

Non è un morbo fatale quello che ci ha imposto la fine della possibilità anche di immaginare qualcosa di diverso dall’oggi e qui, dove ci si vuol dimostrare che ogni pressione e repressione, ognuna delle sette piaghe è incontrastabile e irreversibile e siamo condannati a sopportare il futuro che hanno disegnato per noi e contro di noi? E che non ci resta che chiuderci in casa, evitare i contatti, la vicinanza  con gli altri che potrebbero  preludere a compassione e solidarietà, per obbedire a regole, quelle dell’economia, del mercato e della finanza che sono diventate leggi di natura fatali in un mondo che sta rotolando verso la catastrofe ambientale?

Sicchè l’unica soluzione è l’isolamento, la limitazione dei diritti di circolare, pensare, esprimersi,  per dare forma al nuovo ordine sociale nel quale solo l’assoggettamento garantisce la salvezza perché fa da vaccino contro la libertà e permette, come compensazione, di saccheggiare il supermercato e salire sul tetto come cecchini per sparare ai passanti, potenziali untori.