ch  Anna Lombroso per il Simplicissimus

Dopo i  precedenti ventiquattro insuccessi, anche la Cop25 tenutasi a Madrid è fallita.

L’unico impegno sortito da due giorni e due notti di “febbrili” negoziati, cos’ hanno scritto i cronisti, è stata la presa d’atto del “bisogno urgente” di agire contro il riscaldamento climatico, sottoscritta da tutti i notabili dell’impero che da un anno si fanno fotografare insieme a Greta, guardano con compiacimento affettuoso  ai giovani militanti dei Fridays For Future, esibiscono rampolli e nipotini giù per li rami impegnati a dare il buon esempio raccattando lattine e bottigliette di plastica dalle spiagge esclusive delle seconde e terze case fronte mare.

A Madrid gli Stati avrebbero dovuto stabilire target di riduzione delle emissioni di Co2 “superiori al passato”, trasformando gli accordi volontari in impegni vincolanti, rendere operativo il fondi di 100 miliardi l’anno che doveva sostenere azioni ispirate allo “sviluppo sostenibile” nelle economie più povere, e dare applicazione all’articolo 6 degli Accordi di Parigi che prevede l’attuazione dei meccanismi di mercato per la compravendita dei “crediti di carbonio”.

Grazie alla ferma opposizione, accolta con sollievo dagli altri paesi del capitalismo carbonico,  di  Arabia Saudita, Brasile, Australia e Stati Uniti,  la conferenza della parti “in commedia” ha detto no  perfino a una parvenza di ecologia da giardinieri, quella che sta trasformando il rispetto delle risorse in propaganda per consumatori talmente maturi da assumersi l’onere di pagare i costi economici, sociali e umani dei grandi sporcaccioni, multinazionali, imprese pubbliche e private. Dando così ragione a chi con un ulteriore affronto alla ragione vuole dimostrare che il taglio drastico delle emissioni di Co2, ma soprattutto la limitazione delle stanze inquinanti non meno responsabili del cambiamenti climatico, non valga la contrazione dei loro profitti e i conseguenti ipotetici effetti sull’occupazione, quella più “sporca” precaria e effimera, quando invece sarebbero incalcolabili quelli positivi su posti di lavoro qualificato indotti da formidabili azioni di salvaguardia e di sviluppo della ricerca applicata.

E infatti Macron ha approfittato del più miope degli slogan dei Gilet Gialli: «Tu ti preoccupi della fine del mondo, noi non sappiamo arrivare alla fine del mese», per  dismettere l’idea di introdurre una tassa “ambientale” e perfino la letterina di Natale della Von der Leyen  con la sua modesta utopia riguardo la realizzazione di un’Europa climaticamente neutrale,  quindi senza emissioni, entro il 2050, complementare con l’Alleanza Atlantica  “che da 70 anni rimane garanzia di pace e libertà”, come ha voluto ricordarci  il presidente Mattarella, il miglioramento del sistema di scambio delle quote di emissioni e l’introduzione di una tassa di frontiera sul carbonio, pare una irrealizzabile ipotesi visionaria di guerriglieri verdi a fronte del calcolo secondo il quale la decarbonizzazione dell’Ue costerebbe 6 mila miliardi di euro alla volta del traguardo del 2050.

Se c’è dunque qualcosa che non pare più redditizio ai Grandi della Terra che sta rotolando verso la catastrofe, è la Green Economy. Meglio dunque valorizzare, come dicono loro, quella parte della narrazione del popolo di Greta, che attribuisce alla collettività e ai singoli individui la salvezza tramite azioni volontarie, comportamenti di ecologia domestica, consumi resi peraltro più ragionevoli e sobri per il consolidamento di una crisi di sistema, nutrita dalla fine dell’economia produttiva, dall’eclissi dell’egemonia occidentale, dalle fortune della roulette globale.

Del resto, proprio come ormai indicato da altri fermenti oggi più affermati dell’ambientalismo propagandato dal sistema neo liberista che ha avuto come verginale testimonial la pulzella Greta Thunberg, si occupino i “competenti”, quelli che hanno identificato un unico pericolo killer  nelle emissioni di Co2, per restringere il campo d’azione  della ricerca e delle politiche di controllo delle attività antropiche e per  favorire una transizione industriale destinata a stimolare consumi “altri” oggetto di una pubblicità “responsabile”, “light”, “equa” e “sostenibile”, insomma senza olio di palma.

E sono ormai così sfacciati e le loro argomentazioni si sono talmente rafforzate con il sostegno non sappiamo quanto inconsapevole dei festosi fan dell’ecologia pro sistema, pro foreste da valorizzare per procurarci un bel parquet, pro mercato se affida ad esso la soluzione di problemi che crea, da non perdere tempo a immaginare una borsa delle emissioni che diffonda l’impunità per grandi inquinatori in grado di comprarsi licenza da paesi e imprese meritevoli di ulteriori ricatti, intimidazione e commercializzazione delle loro risorse e dei loro comportamenti forzatamente corretti e assennati.

La lezione da trarre è poi sempre la stessa, che c’è poco da fidarsi da chi esprime critica stando ben collocato nella tana tiepida del sistema, ma soprattutto di chi gli dà credito offrendo una interpretazione estensiva della famosa massima di Rosa Luxemburg, secondo la quale chi non si muove non si accorge delle catene. Se chi si riunisce in piazza come negli stadi di Ligabue e della Pausini alla luce della fiammella degli accendini, non vuole sapere chi le ha strette quelle catene, se pensa che i lucchetti che le sigillano siano sopportabili quanto quelli di Ponte Milvio benedette dallo scrittore di cartine dei baci, se si convince che basta enunciare dolcemente e amorevolmente buoni propositi per scuotere chi ci sta sopra e ci vuole sottomessi, ma con le buone maniere, se si persuade che ci possa essere una lobby di massa che canta Bella ciao o il Ragazzo della Via Gluck per riscattarci dalla servitù.

E non vuol sapere che il tintinnio che sente non è quello delle catene, ma quello del campanellino appeso al guinzaglio.