medusabozzettoAnna Lombroso per il Simplicissimus

Ma ve li ricordate i giorni non  lontani,  quando venivano pudicamente definite “impopolari” quella misure di obbligatoria austerità ad alto contenuto educativo e pedagogico che dovevano riportare sulla retta via della severità la marmaglia che aveva voluto e avuto immeritatamente troppo.

Già allora altro non erano che intimidazioni e punizioni rivolte contro il popolo, solo che adesso  che  il rigore ha preso la forma di onorevoli compromessi, accettati da tutti di buon grado come atti di incrollabile fede cieca nell’Europa, si sono arricchiti di una loro nobiltà  dovendo contrastare sovranismo e populismo, il primo anche nella qualità di riluttanza a dare in cessione poteri e competenze dello Stato, il secondo che si manifesterebbe con riottosi malumori nei confronti  di un ceto dirigente che ha disatteso le aspettative di benessere a lungo promesse.

Si muove così la destra, quella davvero interessata a stabilire l’eclissi della sinistra, a dimostrare che la lotta di classe è finita per lasciare il posto a contenziosi tra organizzazioni e “aziende”, tra differenti comportamenti, inclinazioni, modi della comunicazione, gusti, compresi quelli musicali. E che si afferma interpretando le convinzioni e le aspettative di chi vive e ancora sopravvive ai piani alti ma anche di chi ha perso beni e risorse, ma di persuade di goderne ancora perché resta beneficiario dello stile di vita e dell’ordine sociale liberale e liberista, si riconosce nella narrazione progressista perché è fautrice della libertà, purché sia quella formale e personale, ha davanti un piatto semivuoto ma si appaga delle spezie del riconoscimento e dell’ammissione delle “diversità”, ha rinunciato alle pretese di uguaglianza per accontentarsi dell’emancipazione e del confronto con chi sta peggio, subito declassato a ignorante, inadeguato e immeritevole.

Adesso ha anche la sua base, osannata dalla stampa e vezzeggiata dai rappresentati di vari potentati che seguono con occhi incantati e luccicanti di fervida indulgenza le gesta dei loro delfini, e che non occorre sia elettorale tanto finisce per accodarsi alle file dei votanti per il male minore, dimenticando che si tratta comunque di un male, soprattutto adesso che l’urna appartiene alla liturgia delle ceneri democratiche, nella prospettiva che vengano selezionati e circoscritti i target degli aventi diritto secondo criteri relativi all’istruzione, all’età, al censo, alla localizzazione geografica e magari al colore degli occhi e della carnagione.

E ha i suoi maître à penser, stilnovisti contro beceri, educati contro bifolchi, incliti contro incolti, osservatori entusiasti di tutto quello che si muove sotto le fronde della quercia dell’ecologia del politicamente corretto,  forti della coscienza di essere moralmente superiori, aperti al nuovo e all’altro, lungimiranti, cosmopoliti, e quindi critici malevoli – ma è giusto così e non si potrebbe fare altrimenti – di quella plebaglia indistinta che si agita tra i fori cadenti – che non ci sono più fucine stridenti e i solchi si bagnano soprattutto del sudore di immigrati e precari senza diritto di parola . che rimprovera loro la pretesa di innocenza a fronte della indifferenza sussiegosa mostrata davanti alla cancellazione dal lavoro dei suoi valori e dei suoi diritti,  al sacco del territorio, al degrado della sanità, all’oltraggio perpetrato nei confronti dell’istruzione pubblica, alla svendita del patrimonio pubblico e dell’industria nazione, al dirottamento degli investimenti dalla manutenzione dei beni comuni, dall’impegno sulla ricerca e la formazione, verso il salvataggio di banche criminali e la corsa agli armamenti.

Ieri mi sono imbattuta in due di loro, ambedue figli celebrati di autorevoli padri. Uno è quel Fabrizio Barca, noto per la sua ossessione per il Progresso tanto da volere che tutto diventasse smart, la Costituzione, il Parlamento, le città, i siti archeologici a cominciare da Pompei dove la luce modernità avrebbe potuto illuminare il degrado e l’abbandono, come d’altra parte si vorrebbe fare in ogni angolo del nostro sventurato Paese, e pure i partiti, tanto che gli si deve una visita pastorale e ossianica nei luoghi della memoria del Pd, circoli e sezioni, per stabilirne la fine ingloriosa e mettere mano a altro movimento, un Forum Disuguaglianze e Diversità,  per strutturarsi sui territori e “costruire ponti tra culture differenti che si ritrovano nell’articolo 3 della Costituzione”  e combinando “le conoscenze dei mondi della ricerca e della cittadinanza attiva”, proprio come un Calenda qualsiasi,  cui i cassamortari dell’impresa di Zingaretti guardano con  invidia.

Dalle pagine di Micromega intervistato da Russo Spena che si arrabatta come può per dimostrare la sua esistenza in vita, ci ammonisce: basta con la sinistra moderata,  serve radicalità per battere Salvini. Come dire che per battere la destra cattiva serve quella buona, quella che per radice grammaticale evoca la Bonino e il suo proselitismo europeista, perché serve pensare a aggiustamenti e accorgimenti per modernizzare, aggiornare e dare appeal all’indiscusso e imprescindibile sistema capitalistico dettando quelle “mission di indirizzo del quale ha bisogno”,  imponendo una cultura che veda “la giustizia ambientale e sociale come i veicoli dello sviluppo”, dettano regole “per le imprese migliori, innovative, che non pagano salari di fame, che non scaricano sul lavoro la volatilità del mercato” rispondendo alle “sfide della gig economy, del precariato diffuso, dell’uso dell’intelligenza artificiale“. Per riassumere, la proposta è quella solita, lo dice il cognome stesso, visto che si starebbe tutti “sulla stessa barca”, tant’è scegliere il “compromesso di classe”, convertire il conflitto in cooperazione, ammansire l’avidità e la ferocia neoliberista con la poetica dello Stato padre e – quando ci vuole – padrone.

L’altro, anche lui intervistato dall’inossidabile Luca Telese in forma di  agile volumetto sul Turbopopulismo in aperta concorrenza con gli slogan di Bauman, è Marco Revelli che  ci somministra edificanti memoriette degli anni giovanili dalle quali apprendiamo che il popolo lui lo ha conosciuto da fanciullo e poi ha imparato via via a diagnosticarne le virtù trasformatesi, lascia intendere, in vizi, dalla ribellione dei soldati mandati al macello, dalla partecipazione alla Resistenza, dalla volontà di riscatto e affermazione sociale del dopoguerra alle esuberanze dei residenti di quelle geografie leghiste che con meticolosità  da anatomopatologo analizza nelle sue mappe sociologiche.

A tutti e due proprio non va giù che il popolo ingrato e incollerito non li stia a sentire, non li veda e non li segua in veste di avanguardia illuminata preferendo qualche arruffapopolo da strapazzo, che stia come una torma di barbato o peggio come un branco di cani arrabbiati a minacciare le loro redazioni, i loro studi in selettive facoltà universitarie, i loro think tank e i loro laboratori, mal difesi dalle trincee del bon ton, dai reticolati dell’educazione e dell’acculturazione, dai cancelli della ragionevolezza borghese, quelli dietro ai quali si trincera una classe che non si arrende a essere stata impoverita, bistrattata e che vuole ne sia riconosciuta la sua appartenenza grazie a una pretesa superiorità rispetto a gentaglia incivile e marginale, risentita, diffidente, odiatrice, violenta e rancorosa, in una parola populista. Gentaglia che vive nelle periferie materiali e morali senza nemmeno le cifre ribelliste dei primi gilet gialli, degradati anche quelli a qualunquisti sovversivi, a tourbillon antisistema, quelli che, a pagina 63 del pamphlet a quattro mani, il Revelli definisce i “margini che si sollevano” sfrontatamente, per lo spirito di vendetta  dei dimenticati e dei numeri secondi.

Come nei luna park, ci invitano a mirare sulle sagome di Salvini, di Trump, dei gran maleducati e gran cialtroni ai quali spareremmo volentieri tutti, ma è meglio stare attenti perché dietro ci siamo già noi, i Tartari.