tortaAnna Lombroso per il Simplicissimus

Io capisco che siete ancora tutti impegnati nel neo-antifascismo militante contro l’ex ministro che continua ad essere in auge grazie al successo di critica, la vostra, di pubblico, anche elettorale, di stampa, tutta entusiasticamente adibita a fare da ripetitore alla sua propaganda cialtrona. E che se proprio un sabato mattina decidete di disertare il supermercato, è per andare in piazza con specie ittiche  più civiche dei bastoncini e dei filetti del Capitano.

Però sarebbe opportuno che vi guardaste intorno per identificare altri pericoli per la democrazia e l’interesse generale e per dare voce e ascolto ad altri fermenti, uno per esempio si chiama Emergenza Cultura, i cui rappresentanti non si sa come non compaiono mai nei talk, non vengono intervistati, non producono gadget e merchandising, forse perché si battono proprio contro la commercializzazione dei nostri beni e l’occupazione dei nostri templi dell’arte, del paesaggio e della storia da parte dei mercanti.

E di mercanti ce ne sono due molto attivi nel governo e hanno il merito sorprendente di farci rimpiangere i predecessori, Toninelli e Bonisoli.

Si tratta della ministra delle Infrastrutture, entusiasta delle opportunità che offrono le emergenze testate in qualità di ex commissaria nel cratere del sisma del Centro Italia, vuole perpetuarne qualcuna foraggiando quelle grandi opere dannose per l’ambiente e i bilanci pubblici ma redditizie per cordate di corrotti e corruttori, prudente e riflessiva invece quando si tratta di noiosa e poco creativa manutenzione del territorio o di rivedere contratti con controparti criminali. E del ministro per i Beni Culturali, tornato per fare piazza pulita di due o tre misure non proprio disdicevoli del predecessore, grazie al ricorso al gioco delle tre carte, togli qualcosa a qualcuno (l’ingresso gratuito agli ultra sessantacinquenni, che vadano a guardare i lavori degli stradini perbacco!, e rimetti le domeniche gratuite nei musei.

Era solo il primo passo della restaurazione secondo Franceschini, che sta ripristinando i contenuti della sua Prima Riforma che aveva fatto di lui con tutta probabilità il peggior Ministro dei Beni Culturali, in pool position con Galan, Ornaghi e quel Bondi, cui dobbiamo l’acquiescenza idiota al dimezzamento del budget del dicastero voluto da Berlusconi e Tremonti, quello che la cultura la voleva in mezzo a due fette di pane, così oggi spendiamo in cultura l’1.1% della spesa pubblica (cioè esattamente la metà della media europea) e lo 0,6% del Pil.

Lui non parla di salame o mortadella con marchio Unesco, ma ripete il mantra desolante e  il trito repertorio da volantini di Mondo Convenienza con l’offerta sugli scaffali del supermercato globale del nostro petrolio e dei nostri giacimenti al migliore offerente. Non a caso ha subito provveduto al ripristino della direzione generale Turismo presso il ministero dei Beni culturali, con la vigilanza sull’Enit e l’elaborazione del piano strategico, a sancire che il tesoro d’arte e storia e memoria che abbiamo avuto in prestito e che dovremmo restituire intatto alle generazioni a venire, che abbiamo mantenuto sia pure non al meglio con le nostre tasse è vocato e destinato allo sfruttamento turistico. E che la nostra missione non è quella di tutelarlo per goderne perché è una perenne lezione di storia e dunque di futuro oltre che di bellezza, ma di lanciarlo sul mercato per trarne profitto.

E infatti la parola d’ordine non è salvaguardia, non è cura, bensì valorizzazione, un termine che già nella sua radice  ha a che fare con la quotazione, il prezzo e il profitto della merce cultura, della cui  promozione sono incaricati quei direttori di museo selezionati in virtù di conclamate performance di manager e esperti di marketing con particolare interesse per soggetti stranieri che garantiscano un rapporto consolidato con le multinazionali  del moderno consumo di merce culturale.

D’altra parte da uno che in fase di eclissi di poltrone ha trasformato la casa avita in profittevole B&B ,  non possiamo aspettarci che pratichi il culto del passato,  come si fa nei musei che, lui forse non lo sa, sono un “brevetto” italiano. E infatti il museo dovrebbe essere una realtà viva e di tutti, non è una mostra,  non è a termine, non si monta e smonta e non deve aprire una tantum, non deve essere messo in ombra dalle esposizioni che ospita o dissanguato da quelle che nutre con prestiti dissipate,  fa parte dei nostri territori, incarna e dà ospitalità alla nostra memoria collettiva, in quelli maggiori molto propagandati come in quelli minori, ancora più fondamentali per il rispetto e il ricordo di radici comuni.

Mentre grazie a “riforme” volute da insospettabili progressisti, in testa Ronchey e Veltroni che hanno preparato la strada al nostro Attila odierno, si è spalancata la porta al mecenatismo peloso dei privati grazie all’istituto delle concessioni  che ha lasciato nelle loro mani non solo i cosiddetti servizi aggiuntivi dei luoghi di cultura (ristoranti e librerie), ma anche la didattica, l’organizzazione delle mostre, la bigliettazione e la
vigilanza,  per mettere a reddito i nostri tesori. Così a Palazzo Pitti si fanno gli addii al celibato  e le cene degli azionisti delle multinazionali, a Brera sfilano i capi degli stilisti, alla Gipsoteca riscaldata opportunamente invece l’intimo di una nota marca, il Colosseo è da tempo la location di sconfortanti show compresi i festeggiamenti per l’ottavo re n.10 della Magica,  la Reggia di Caserta diventata un brand è la location preferita di spot, allestimenti arrischiati per mostre estemporanee, il nome per la pubblicità di liquori, pasta, accessori,  Ponte Vecchio si chiude ai cittadini per la cena di gala di un’azienda cara al Giglio renziano.

Viene da sospettare che la restituzione dello status di autonomia amministrativa e gestionale  alle Gallerie dell’Accademia di Firenze concessa dallo stesso Franceschini nel 2016 con la incoronazione a direttrice della tedesca Cecilie Hollber, che si è definita “manager culturale”, così come è previsto per il Parco Archeologico dell’Appia Antica e per il Museo nazionale etrusco di Villa Giulia a Roma, vada nella stessa direzione di altre pretese centrifughe che premiano insulsi campanilismi e invadenze privatistiche,  pensate per segmentare e paralizzare la gestione centrale e di conseguenza quella periferica, conservando allo Stato la tutela ma delegando poteri decisionali e competenze a comuni e regioni in “piena schizofrenia amministrativa”,  se è vero che l’indipendenza dal Polo della Toscana del museo, che non possiede una struttura né uffici  a disposizione di una comunità di ricerca e studio, serviva solo a tenersi in tasca i proventi del biglietto per la visita al Davide.

E non rincuora certo il potenziamento previsto della struttura. Quanti fichi secchi serviranno alle nozze di  7 nuove soprintendenze, alla creazione di quella nuova per il patrimonio subacqueo, della nuova direzione generale per la sicurezza del patrimonio culturale e per la conferma degli uffici esportazione in qualità di strutture interne operative alle soprintendenze, questi ultimi incaricati delle procedure che presiedono alla pratica nefasta dei prestiti con trasvolate oceaniche a beneficio delle iniziative di norcini e organizzatori delle multinazionali dei Grandi Eventi  ? O per il rafforzamento della direzione generale Creatività Contemporanea che già così puzza di polvere negli occhi dei citrulli e che dovrebbe occuparsi di rigenerazione urbana, design, moda, periferie, industrie culturali e creative, qualsiasi cosa si voglia intendere con questo sciocchezzaio modaiolo degno del manifesto delle Sardine.   Quando  a fronte dei 25 nuovi dirigenti “promossi” da Franceschini per avere una rete di controllo, vigilanza e tutela ci sarebbe bisogno di almeno sette mila  addetti.

E’ che, come ha osservato Salvatore Settis, l’ideologia che ha ispirato gran parte dei ministri che si sono susseguiti negli anni considera le soprintendenze e la rete di  tutela come una “bad company”, distinta dalla “good company” che sarebbero i musei e la conservazione pura e semplice.  Così chi lavora tra le mura di un museo, di una chiesa, in un sito archeologico è umiliato, mal pagato, privo di quelle stesse tutele che dovrebbe riservare alla bellezza di cui è incaricato di aver cura. Solo la metà di loro ha un contratto  e solo il 23% ne ha uno “regolare”, magari di quelli multiservizi, quelli per le pulizie, per le mense scolastiche, del commercio, mentre per gli altri vige la regola del ricatto e l’imposizione di un volontariato come promessa e premessa di qualcosa di più in un ipotetico futuro.

La cultura non si mangia ma nemmeno ci fa mangiare: in troppi se la stanno rosicchiando.