Ora la Fiat si è arresa al matrimonio, ma vi arriva in condizioni comatose, senza poter minimamente condizionare le scelte industriali e con governi messi ancor peggio che sembrano fregarsene e che del resto non hanno il minimo di coraggio, visione e credibilità per intervenire: dunque ciò che resta delle fabbriche italiane è destinato al macero, salvo gli stabilimenti polacchi, serbi e turchi per ovvi motivi salariali. E d’altronde nemmeno esistono i modelli da mettere sul piatto della bilancia perché quelli esistenti sono vecchi se non ormai decrepiti o frutto, come accade per l’Alfa Romeo, di nozze con i fichi secchi, ma in ogni caso si sovrappongono a quelli francesi o della Opel, dunque sono ampiamente sacrificabili: se Peugeot ha chiesto la mano della sfortunata ragazza, è solo per avere un’entratura nel mercato americano e soprattutto acquisire i marchi prestigio come Ferrari e Maserati. Tanto per dare un’immagine diacronica del naufragio italiano va detto che fu la Fiat a salvare la Citroen dalla bancarotta tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, comprando il 49% delle azioni e dando all’azienda la possibilità di risollevarsi, immettendovi nuove tecnologie motoristiche e dando la possibilità di sfruttare il pianale della 127 per dare vita alla GS, unico modello moderno dopo la mitica Ds. Fu De Gaulle a mettere i bastoni fra le ruote e a impedire che la coppia di fatto andasse stabilmente all’altare (non prima però che il gruppo torinese versasse la sua dote tecnologica) nonché a convincere la Peugeot ad acquisire le azioni senza che naturalmente il nostro governo facesse nulla di efficace, né gli Agnelli avessero una visione strategica che andasse al di là delle casseforti di famiglia.
Altri tempi. Ma questa vicenda ci consente di fare dei bilanci più generali: la Fiat campava di una facile rendita con gli aiuti dello stato, diretti e indiretti o con le sontuose commesse per le sue aziende di contorno, mentre la bolla di potere in cui si affastellano promiscuamente politica, affari e media le consentiva un dominio praticamente assoluto sul mercato italiano.Non aveva voglia di battersi seriamente per acquisire una posizione di spicco se non di predominio in Europa. Troppa fatica e soprattutto troppo incerto il guadagno padronale di fronte a una situazione di mercato che l’avrebbe costretta a migliorare e di molto gli standard costruttivi, le tolleranze di fabbrica, la scelta dei materiali e insomma ad abbandonare la mediocrità produttiva che poteva permettersi grazie a un quasi monopolio sul mercato casalingo che in seguito ha difeso impedendo che altri marchi, oltre a quelli Lancia e Alfa Romeo, acquisiti per quattro soldi, impiantassero fabbriche e centri produttivi in Italia. E così quando le avvisaglie del globalismo hanno battuto un pugno sul tavolo strappando all’azienda torinese sempre più fette di mercato interno, il gruppo è andato in situazione di costante apnea. Abbiamo di fronte agli occhi il massimo esempio di come un’eccellente capacità ingegneristica sia stata alla fine umiliata da una pessima pratica costruttiva e gestionale per motivi di immediato profitto padronale, uno iato, un precipizio che peraltro possiamo notare in ogni campo di questo disgraziato Paese.
Certo non è immaginabile che la Fiat potesse rimanere da sola in un mercato globale , ma fare le alleanze giuste da una posizione di forza è cosa diversa da fare l’accattonaggio molesto e per di più verso chi non sta nemmeno troppo bene: prima si è lasciata scappare l’occasione giapponese di fare alleanze, poi quella cinese specialmente dopo l’infausta unione con la Chrysler e adesso si lega ai suoi diretti concorrenti la cui unica mira è togliersi di mezzo il concorrente locale. Pegiò per noi.