darwinismo-socialL’altro giorno all’inizio di un documentario sono saltato sulla sedia quando la suadente e retorica voce fuori campo ha detto che le forze fondamentali della natura sono in competizione fra loro. Questo modo così banalmente antropomorfico di interpretare le interazioni fondamentali del mondo fisico può sembrare una sorta di innocua semplificazione destinata al grande pubblico a cui il documentario in questione era rivolto, ma in realtà si tratta di imporre una visione univoca del mondo in cui la competizione diventa fondamento della società, dell’antropologia e al tempo stesso dell’universo in una sorta di assurdo monismo sociale. Certo le cosiddette scienze dure sono difficilmente riconducibili a questa ontologia competitiva al di fuori delle esposizioni più infantili , ma altri campi della conoscenza scientifica ne sono pienamente esposti e condizionati. L’esempio principe è quello del darwinismo che per un secolo e mezzo è stato l’estensione della mentalità capitalistica come metafora della vita stessa: lotta e supremazia, vittoria del migliore, cosa che inizialmente ben si accordava con lo spirito del tempo e con un colonialismo che da una parte confermava la superiorità bianca, dall’altra ne era giustificazione e assoluzione così come oggi è assoluzione per le inedite disuguaglianze sociali.

Qui voglio essere chiaro, a scanso di equivoci: l’evoluzione o meglio ancora la mutazione dei viventi non è una teoria, ma un fatto accertato e confermato dalla dinamica stessa dei meccanismi di riproduzione: Il problema sta nel comprendere i meccanismi e le condizioni in cui questo avviene. La teoria darwiniana che prevedeva minimi e graduali cambiamenti guidati in maniera assoluta dalla selezione ambientale non era solo quella che spiegava meglio i fatti paleontologici del suo tempo ( da notare che L’origine delle specie uscì quando ancora non si conoscevano le leggi mendeliane)  e dava loro un senso, ma si accordava anche alla perfezione con lo spirito del capitalismo. Dunque nonostante questa visione sia sostanzialmente cambiata, soprattutto dopo la scoperta del Dna, il darwinismo rimane la dottrina ufficiale mentre Darwin stesso diceva che la teoria avrebbe dovuto essere totalmente abbandonata se si fosse trovata qualche caratteristica che non si fosse evoluta gradualmente. Di fatto, a parte qualche tratto marginale, nulla può essere spiegato col gradualismo e tuttavia si assiste a un disperato funambolismo narrativo e ipotetico per non abbandonare esplicitamente Darwin e quel gradualismo che fa della competizione il senso dell’evoluzione. Per certi versi questo campo di ricerca che ha il suo fulcro in America. teme che una fuoriuscita anche solo nominale dal darwinismo lasci campo libero al fanatismo creazionista per cui anche i contestatori di fatto del darwinismo, a cominciare da Motoo Kimura e passando da Stephen Gould con i suoi equilibri punteggiati, pur confutando il gradualismo, hanno scelto di non dire che Darwin aveva torto, contribuendo a costituire un tabù attorno a questo. Per altri e forse più consistenti versi, almeno al di fuori delle logiche accademiche, questa resilienza ha origine nel fatto che il pensiero unico si crogiola nell’idea di essere la continuazione sociale e politica dell’evoluzione e dunque di riprodurre la dinamica della vista stessa: in questo senso l’affermazione, peraltro rozza e sbagliata, secondo cui l’uomo deriva dalla scimmia era solo apparentemente motivo di scandalo a suoi tempi, ma era musica per le orecchi del capitalismo rampante visto che giustificava ontologicamente la disuguaglianza e la vittoria competitiva. Immaginate lo scandalo se si scoprisse che l’evoluzione è guidata dalla cooperazione tra viventi.

In effetti l’evoluzione intesa nel senso di Darwin pone insormontabili problemi sia fattuali che concettuali e comunque la genetica, le teorie evo – devo e la recente nascita dell’epigenetica, rendono il darwinismo una teoria storica più che attuale e tendono a cambiare la visione d’insieme mettendo l’accento più sulla “creatività genetica” di specie  che sui meccanismi selettivi individuali e restituendo perciò una visione d’insieme profondamente diversa da quella originale dove l’evoluzione è qualcosa di molto più cooperativo e collettivo. La cosa è così conclamata  ormai da decenni, che uno dei massimi e più intelligenti  studiosi del settore, Richard Dawkins, ha tentato di  trasferire la competitività dagli organismi ai geni stessi cercando di salvare capra e cavoli.  Ma il successivo accumulo di conoscenze ( Il gene egoista è del ’76) ha messo in crisi una visione peraltro affascinante sotto altri punti di vista. Non posso qui spiegare cosa è cambiato nel tempo perché il  campo è molto complesso e spesso pieno di sottili insidie, ma per i curiosi a cui non dispiace fare qualche fatica intellettuale posso consigliare Gli errori di Darwin di Massimo Piattelli Palmarini e Jerry Fodor e per chi invece vuole cominciare a farsi un’idea del campo e delle trasformazioni subite già 50 anni fa  Gli equilibri punteggiati di Stephen J. Gould.

Rimane  il fatto davvero paradossale che mentre le prospettive proposte o riassunte in questi libri sono patrimonio comune, l’assoluta maggioranza degli studiosi insorge se appena si tocca  un darwinismo che lo stesso Darwin aveva consigliare di “abbandonare totalmente” di fronte anche a una sola evidenza contraria al gradualismo: è chiarissimo che questo ha poco a che fare con la scienza, ma piuttosto con l’ideologia popolare del pensiero unico. Immaginiamoci dunque la difficoltà di contestare tale ideologia e i suoi articolati in altri campi assai più coinvolti come quello sociologico, economico e politico.