acqua-contaminata-fukushima-e1568109952882La mente umana è in grado di escogitare numerose strategie pur di non essere costretta a cambiare l’angolazione dalla quale guarda il mondo e il conseguente intreccio di relazioni costruite su quella base. Alle volte queste strategie sono complesse e bisogna seguirne le tracce come pollicino, in altri casi mostrano apertamente le proprie contraddizioni come le frecce di San Sebastiano. Per esempio su Le Scienze, si legge un intervento fuori contesto a difesa dell’ipotesi espressa dal governo giapponese e fortemente voluta dalla Tepco l’azienda privata proprietaria dell’impianto, di buttare nell’oceano l’acqua radioattiva che serve a raffreddare ciò che resta dei reattori della centrale di Fukushima. Si tratta di un milione di tonnellate cui se ne aggiungono ogni mese notevoli quantità a causa delle acque di infiltrazione sotto la centrale che devono essere recuperate perché contaminate e finiscono in speciali serbatoi che non possono essere aggiunti all’infinito.

Si tratta ovviamente della soluzione meno costosa di smaltimento, ma che trova nei pescatori un’opposizione irriducibile perché temono che la gente non compri più i loro pesci.  Ora però Marco Casalino, ricercatore dell’ INFN che ha lavorato sul campo a Fukushima, fa il rassicuratore d’ufficio e spiega che si tratta di paure assurde perché il riversamento nel Pacifico di queste acque rappresenta un rischio irrisorio visto che prima le acque radioattive verrebbero presumibilmente filtrate per estrarne i materiali più pericolosi, poi diluite fino a un livello di  60.000 becquerel per litro dovuti essenzialmente al Trizio e poi riversate nell’oceano di un periodo di anni. Così  si otterrebbe il risultato di immettere nell’oceano un quantitativo giornaliero in linea con quello rilasciato da altri impianti nucleari nel loro normale funzionamento, anzi a volte inferiore: “per esempio, in Francia l’impianto di lavorazione del combustibile esausto di La Hague rilascia ogni anno nella Manica 12.000 miliardi di becquerel, circa dieci volte la radioattività di tutto il trizio stoccato a Fukushima.”

Se questo vuole essere un argomento tranquillizzante allora proprio non ci siamo. Ma il bello deve ancora venire perché si dice che la radioattiva da trizio immessa è solo una quantità minima rispetto a quella naturale e inoltre il pericolo non sussiste perché il trizio sarebbe innocuo visto che le particelle beta che emette non superano la barriera della pelle e che la sua tossicità è incerta tanto che vengono ammessi limiti diversissimi nell’acqua potabile che vanno dai 100  becquerel per litro dell”Europa ai 76 milla ammessi dall’Australia, passando per i 10 mila dell’Oms. In tal modo l’incertezza  di conoscenza riguardo agli effetti diventa la base  per escludere ogni pericolo. Poi si scopre che i pescatori non hanno del tutto torto perché una cosa è l’acqua che si beve, un’altra il pesce che si mangia: l’ autore di questa difesa d’ufficio ammette che “una parte di questo trizio può essere un po’ più pericoloso di quello nell’acqua perché si fissa nelle molecole biologiche, e può essere incorporato nei tessuti e restarvi anche per anni. Quanto trizio sia metabolizzato così, e quanto più rischioso sia in questa forma, è dibattuto, ma i calcoli eseguiti sotto le ipotesi più varie mostrano che – per quanto pesce si possa mangiare – l’esposizione equivalente resta comunque largamente al di sotto anche degli standard di sicurezza dell’acqua europei”.

Avete visto dov’è il trucco? Ci si riferisce ai livelli di sicurezza per l’acqua che si rinnova rapidamente nel corpo umano, riferendoli tout court al cibo che è una cosa diversa e potrebbe portare ad accumuli permanenti nei tessuti e a conseguenze non precisamente auspicabili. Tuttavia da ciò che non si sa e dalle ipotesi in discussione scaturisce la certezza granitica dello sciamano di turno, ovvero che i consumatori sono dei coglioni facilmente influenzabili da qualsiasi sciocchezza o paura irrazionale. Il che magari è anche vero in tantissimi casi, ma non in questo dove nessuno vuole fare da cavia per vedere l’effetto che fa, soprattutto perché c’è un dibattito aperto sulla questione e gli effetti stocastici dell’esposizione a basse dosi di radiazioni non sono per nulla chiari. Non a caso ci sono proposte diverse per liberarsi dell’acqua radioattiva: qualcuno propone  di vaporizzarla (cosa che forse sarebbe ancor più pericolosa ) o di congelarla e attendere che la radioattività diminuisca: in cinquant’anni essa sarebbe più di 16 volte minore e si potrebbe far sciogliere il ghiaccio in oceano senza plausibili pericoli. La soluzione di sversare semplicemente l’acqua in oceano non è certo la più sicura, ma semplicemente la più economica, soprattutto pensando che la cosa dovrà essere in parte a  carico dalla società privata proprietaria dell’impianto e dunque avrà il minor effetto possibile sui profitti della società e sui suoi azionisti.  Ora io sono lontanissimo dal catastrofismo e dai millenarismi  di ogni tipo, ma quando la scienza è troppo in accordo con i profitti sento puzza di bruciato, anche perché la minimizzazione degli effetti è da sempre ciò che si è opposto a ogni forma di ecologia, salvo poi ritrovarsi nella situazione attuale.