falpala  Anna Lombroso per il Simplicissimus

Era uso comune negli anni ’50 che i partiti  annoverassero nelle loro liste figure simboliche in forma di specchietti per le allodole o di categorie premianti a fini propagandistici.  Non potevano mancare il minatore, il metalmeccanico, la mondina, la casalinga di Voghera e la massaia rurale, queste ultime insieme all’onorevole Angelina, in anticipo  di quelle che poi sarebbero state diventate le quote rosa, che continuano a piacere anche a quelle che invece di scardinare le fortezze del potere si accontentano di darle in gestione a qualche generalessa.

Poi succedeva che questi emblemi dell’album delle figurine non venissero eletti. Ma se capitava finivano presto a ciondolare per il Transatlantico, inascoltati e dimenticati fino a diventare molesti, rappresentando anche senza volerlo patti e promesse mancate.

Nel tempo furono sostituiti da personaggi più sgargianti, architetti, giornalisti, nani e ballerine, cantanti e attricette, finchè un tycoon si prese la passerella del varietà occupandola insieme a veline e giullari, rafforzando le sue file con acquisizioni ardite condotte in altri mercati addirittura antagonisti.

La pratica poi cadde in disuso, le carriere elettive hanno mostrato la corda, non ci sono più le garanzie e le prebende di una volta: lo sanno bene quei promoter che in previsione di scadenze elettorali vanno a caccia di possibili candidati e di firme in calce alle liste, da raccogliere in tutta fretta scomodando gli ospiti di ospizi e anche di qualche cimitero.

E a guardar bene quelle icone messe in lista per acchiappare citrulli più che per assolvere a un orgoglioso incarico di rappresentanza, hanno potuto fare ben poco, a fronte di tanti operai cui non si diede diritto di parola nei processi decisionali, di tanti sindacalisti passati alla politica istituzionale, lo statuto dei lavoratori, tanto per fare un esempio, lo dobbiamo a un severo professore universitario, che venne successivamente eletto solo come risarcimento tardivo e dopo un attentato terroristico che minò la sua salute ma non la sua combattività.

E infatti possiamo star certi che se fosse stato in vita si sarebbe battuto contro la cancellazione dell’articolo 18, contro il Jobs Act, contro le misure di sorveglianza e repressione nei posti di lavoro, contro il caporalato secondo il Pd, ridotto al minimo sindacale quando invece il fenomeno, quello visibile, è aumentato del 25% negli ultimi 10 anni.

Non altrettanto possiamo dire della Ministra all’Agricoltura, gratificata di una  nomina che premia una crescita personale degna di orgoglio e rispetto, da bracciante a sindacalista a parlamentare. Che suscita quindi una grande simpatia  tanto da avere raccolto consenso perfino presso il pubblico degli schizzinosi stilisti  deliziati dai suoi temerari falpalà.

E che con la sua carica umana fa dimenticare la sua adesione a alcune delle misure più indecenti e inique, che hanno promosso la precarietà soprattutto tra le donne, abbattuto l’edificio delle garanzie, della sicurezza e dei diritti, promosse dal partito che ne sventola l’immagine come un vessillo purificatore. O come nuova figura tecnica, secondo quella moda invalsa che impone ragionieri all’Economia, diplomati in computisteria alle Finanze, tranvieri ai Trasporti,  possibilmente guidati con mano ferma da un lacchè dei padroni.

A volte è successo che la carica migliori chi la svolge, non ci resta che sperare che la nuova Ministra dimentichi la fedeltà al partito e alla sua ideologia che ha ispirato misure e azioni antipopolari e ricordi  con autorevolezza e vigore di essere donna e di essere stata sfruttata, bracciante, cittadina.