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I giornali uccisi dalla tv non dalla rete

TV¥s panelTra le tante assurdità che dobbiamo fronteggiare ogni santo giorno adesso c’è anche quella secondo cui la crisi dei giornali, acuitasi in questo 2019, sia colpa dell’ostilità dei Cinque Stelle nei confronti della carta stampata come se il declino fosse stato improvviso e non andasse avanti da oltre un ventennio. Semmai è vero il contrario e non tanto nel senso che i giornaloni sono stati e sono nemici implacabili dei pentastellati, quanto per il fatto che questi ultimi, nel condurre una campagna a tappeto contro i contributi pubblici, hanno supinamente accettato il mercatismo dell’informazione con tutte le sue conseguenze  (tra le quali la loro stessa crocifissione su carta)  e rivelando l’assenza di una visione generale e coerente di trasformazione.

Ma a parte questo la crisi della carta stampata ha motivazioni di ordine generale e una specificità tutta italiana che affonda le sue radici nell’epopea televisivo –  berlusconiana. Quanto alle prime c’è ovviamente la nascita della rete con le sue infinite possibilità, la progressiva perdita del piacere della lettura e della capacità di attenzione, l’omologazione della carta stampata e la sua subordinazione a editori con gli stessi interessi di “classe”, vedi matrimonio tra Repubblica e Stampa che prima erano i grandi giornali di polarità opposta, la crisi e l’impoverimento di vastissime aree di piccola borghesia per le quali i 50 euro mensili per l’acquisto di un quotidiano diventano un fardello, lo scarsissimo successo degli abbonamenti online perché è solo la carta che fidelizza il lettore, mentre in rete si cerca il più ampio spettro possibile e difficilmente ci si ferma ad una sola testata. Con tutto questo se i giornali fossero in grado di esprimere diverse visioni politche e sociali, diverse idee invece del comune e immondo pastone che i porci offrono alle perle tanto per ribaltare la metafora, se investissero in giornalisti invece di risolvere le crisi liberandosene, potrebbero sopravvivere benissimo se avessero quote significative di spazio pubblicitario venduto a prezzi congrui.

Ma così non è perché in Italia, al contrario di quanto avviene in tutto il mondo, c’è stato si un trasferimento di inserzioni dai media tradizionali ad internet e soprattutto ai social, ma questa si è svolta principalmente a danno della carta stampata, mentre la televisione ha perso pochissimo. Parlando in termini globali dal 2011 al 2017 internet è salito dal 21, 4% di raccolta pubblicitaria al 50,5% i giornali sono scesi dal 35,7 al 14,96% e la televisione è passata dal 30 per cento al 24. In Italia invece le cose sono andate in maniera completamente differente: internet è passato dal 13,5% al 37,1%, mangiando però quasi esclusivamente la quota della carta stampata che è scesa dal 24,2 all’ 8, 9, mentre la televisione è rimasta quasi intatta, scendendo da 51 al 42,8 per cento. La ragione di questa anomalia sta nelle normative sulle emissioni radiotelevisive che sono state costruite in maniera da favorire Berlusconi e i suoi affari e per giunta anche quelle che ci sono non sono fatte rispettare: la legge Gasparri prevedeva un massimo del 18 per cento di tempo di pubblicità, mentre quella europea, poi sussunta in Italia  consente interruzioni pubblicitarie ogni 30 minuti e pubblicità indiretta. Qualunque spettatore può facilmente constatare che il tempo pubblicitario arriva spesso oltre il 30 per cento del tempo totale, senza parlare della pubblicità indiretta o quella inserita dentro la trasmissione stessa con i banner.

Come se questo non bastasse le autorizzazioni e le successive concessioni non riguardano in nessun modo la qualità delle emissioni. La maggior parte dei canali, specie quelli minori come Alice o quelli di origine americana, come la 8 o la 9  si limitano a riproporre ad infinitum gli stessi programmi per cui con un investimento minimo sono in grado di creare una grande raccolta pubblicitaria del tutto innaturale. E come se un giornale, prendiamo il  Corriere della sera riproponesse 100 volte gli stessi articoli. Vi sono poi canali aggiuntivi e collaterali a uqelli principali che propongono sempre i programmi, già ripetuti 100 volte, al solo scopo di creare altro spazio per gli spot. Questo senza parlare del fatto che molti format, quasi tutti di importazione americana e dunque spesso ridicoli o incoerenti con la nostra realtà) sono nient’altro che pubblicità mascherata, più o meno abilmente. La cosa paradossale è che proprio il tentativo dello spettatore di evadere dalla ossessiva “pausa pubblicitaria” li fa cadere in altre trappole, avendo almeno il 30 per cento abbondante di possibilità di cadere su un altro spot. Se si imponesse la regola che almeno un terzo  del tempo di trasmissione giornaliera fosse costituito da trasmissioni non ripetute più di due volte tutto questo giochino si sgonfierebbe come un palloncino bucato.

Il correlativo è che la pubblicità in televisione costa troppo poco rispetto al pubblico che raggiunge ed è naturalmente la più gettonata: certo i prezzi variano da canale, ad orario, a giorno, a trasmissione, a posizionamento (i prezzi maggiori sono quelli per il primo e ultimo spot vale a dire quelli più visti), ma ci sono sconti fortissimi sui prezzi ufficiali, sconti che di solito sono effettuati sul numero e la frequenza delle inserzioni, il che ovviamente porta a dilatare i tempi pubblicitari.  Uno spot di mezzo minuto sulla Rai che è la più cara, può arrivare a costare anche meno di 3000 euro, costo di un’intera campagna in canali minori . E’ proprio in tutto questo che consiste l’anomalia italiana, nata al tempo in cui la televisione è diventata principale soggetto politico e a farne le spese sono proprio i giornali, compresi quelli che hanno appoggiato, sorretto  e guidato gli italiani in questa palude.

 

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