Fontana Anna Lombroso per il Simplicissimus

Dania Ombretta Pieraccini dipendente e rappresentante sindacale, è stata licenziata da Publiacqua, la partecipata per il servizio idrico di Firenze, per aver ripreso e commentato su Facebook il post di una esponente 5stelle che denunciava  l’avvelenamento da reagenti chimici di 6 dipendenti all’interno dei locali dell’azienda, peraltro sottoposti recentemente a una ristrutturazione che sarebbe costata circa tre milioni.  

Secondo  la società per azioni del Comune, affidataria, dal 1° Gennaio 2002, della gestione del servizio idrico integrato dall’Ambito Territoriale Ottimale n.3 Medio Valdarno, un territorio, asse portante della Toscana, che interessa 4 province, Firenze Prato, Pistoia e Arezzo (cito dal sito dell’azienda), si trattava di una vera e propria invettiva pregiudizievole della reputazione di Publiacqua. Secondo la Pieraccini, che ha ricevuto la solidarietà dei suo sindacato di base, si trattava del sacrosanto e legittimo sdegno suscitato da un accadimento gravissimo, un infortunio sul posto di lavoro che rivela e conferma condizioni di insicurezza e rischio, sottovalutate e negate dalla partecipata.

Ci vuol poco a osservare che la Spa si arroga il diritto di avvelenare i suoi dipendenti, negando loro  quello di denunciarne i comportamenti:  In merito alla vicenda del licenziamento di una sua dipendente,  si legge in un comunicato dell’azienda, lo stesso è stato effettuato ai sensi del Contratto Nazionale Collettivo Unicogasacqua, essendo stati messi in atto dalla stessa signora comportamenti fortemente lesivi nei confronti della società e dei suoi dirigenti e tali da compromettere il rapporto fiduciario necessario a proseguire la relazione di lavoro”.

Leggere del venir meno di un rapporto fiduciario da parte di un’impresa il cui management è tutto riconducibile all’area che ha promosso il Jobs Act, che non si perita di spiare sui social i suoi dipendenti, che non nega l’incidente mentre punisce chi lo rende noto, può far sorridere, amaramente. E può far sorridere, dolcemente, il caso di una cittadina del 2019 che crede ancora nelle potenza e negli effetti di un referendum vinto dalla maggioranza degli elettori e che ha stabilito la natura di bene comune dell’acqua da affidare alla tutela, salvaguardia, conservazione, e gestione di soggetti pubblici in qualità di rappresentanti dell’interesse generale.

C’è poco da sorridere, invece, perchè siamo di fronte all’apoteosi del processo di privatizzazione dei servizi pubblici, del successo di quella che qualcuno ha chiamato la “commercializzazione della cittadinanza”, dei suoi diritti e delle sue garanzie che ha trasformato i cittadini in clienti e utenti che devono comprarsi tutto e sopportare tutto in cambio del salario anche se precario, dell’ordine pubblico anche se discriminante, della sicurezza anche se ingiusta: essere inquinati in quanto colpevoli di abitudini dissipate, essere avvelenati, per probabili errori umani, essere spiati e invasi anche nel loro privato, per tutelare l’immagine del padrone presso il grande pubblico, che si sa siamo tutti sulla stessa barca, contribuire al suo reddito tramite la contribuzione a fondi promossi dalle stesse imprese, unica alternativa rimasta al sistema pensionistico e  a quello assistenziale. Ma quel che è peggio, nella battaglia intrapresa contro l’abietto e arcaico sovranismo, non solo i cittadini contribuenti, ma pure lo Stato, descritto come una sanguisuga che consiglia di affidare ogni intervento, ogni bisogno e ogni aspettativa a soggetti sussidiari (Ong, coop, volontari e aziende del terzo settore)  è diventato cliente: finanzia i servizi ma a gestirli e trarne ricavati e guadagni sono le imprese private o, come in questo caso, partecipate nelle quali gli azionariati si comportano come tutti gli azionariati del mondo, attenti al profitto loro e al risparmio della qualità e dell’efficienza.

Finora non abbiamo avuto notizia di nobili fan della Pieraccini, salvo qualche voce solitaria sui social cui devo la scoperta di questa notizia.

Viene da consigliare alla licenziata per ingiusta causa di puntare sulla combinazione dello status di donna e di ribelle, senza la quale pare non si possa aspirare a sostegno e ammirazione incondizionata, che quella di lavoratore non fa più nessun effetto.

E viene da consigliare a chi va a cercarsi delle icone da idolatrare di guardarsi intorno e nemmeno troppo lontano. Ieri Carola Rackete ben contenta si è presa l’onorificenza di Macron, dimostrando che Calais, i morti assiderati ai confini alpini, i respingimenti di Ventimiglia benedetti dall’Europa carolingia  sono irrilevanti rispetto al berciare dell’obbrobrioso gorilla italiano e rivelando un carattere  accomodante, accontentandosi della medaglia di vermeil della nazione che è sempre stata in prima linea nelle imprese coloniali che hanno portato morte e ruberie nei luoghi da dove partono i disperato cui avrebbe dedicato la sua missione.

Magari dovremmo essere più esigenti di lei, cercare delle eroine tra le donne che scappano da guerra e fame verso l’ignoto con bambino al collo andando dove nessuno le vuole e ricevendo carità pelosa e pietà giusto il tempo di un selfie prima di diventare invisibili.  O tra noi, donne e uomini, che nel nostro piccolo ogni giorno cerchiamo con altrettanta disperazione di conservare diritti, dignità e speranza.