i_basilischi_1_1546941287Anna Lombroso per il Simplicissimus

Il pregiudizio anche quando è giustificato e legittimo annebbia la ragione. È il caso dei 5stelle che da avventizi della governance vogliono dimostrare coerenza e fermezza soprattutto quando non serve se non per distinguersi dall’alleato troppo esuberante e che si sono ribellati alla sua ultima sortita con la quale propone di resuscitare le province:  «Vogliamo dare i servizi ai cittadini, ha proclamato. «Se i Comuni non riescono a farlo, servono le Province … L’abolizione delle Province è una buffonata di Renzi, che ha portato disastri soprattutto nelle scuole e alle strade».

E dire che i fatti dimostrano anche per i 5stelle che c’è una stella polare cui guardare per agire nell’interesse generale,  fare il contrario dei governi a guida Pd su incarico dell’Europa. In realtà dovrebbero dire anche il contrario di quello che esterna Salvini, ma per una volta l’orologio fermo nella sua testa in mezzo a tutte quelle molle saltate ha fatto l’ora giusta. Anche se con ritardo e estemporaneamente perché per ritardi, inadempienze, incuria, colpevoli non sono i Comuni, i cui vizi per lo strafalcione di natura all’Interno sono incarnati da Roma, ma le Regioni.

Verità semplice che salta agli occhi di tutti prima o poi, dimostrata  dal fatto che perfino Zingaretti alla Provincia ha contato di più che alla Regione, se per contare intendiamo legiferare, emanare, intervenire con atti in nome dell’interesse generale, costretto a agire, si direbbe contro la sua natura, per via della natura dell’incarico che ricopriva. Perché se proprio c’era un ente inutile dagli stipendi sfrontati e i benefit e le sine cura inventati e gonfiati, piccola patria degli usceri, autisti, consulenti, terreno di scorreria  delle clientele, centro di spesa dello spreco straccione (consiglio di scorrere i titoli di testa di qualsiasi film italiano, cinepanettoni in testa, per vedere chi c’è sempre tra i mecenati) è proprio la regione.

D’altra parte l’abolizione delle province – era stato il Carroccio d’accordo con Silvio Berlusconi: «delle Province non voglio parlare, vanno abolite», a decidere il primo storico taglio radicale degli organismi di cui oggi invoca la resurrezione, seguito dalla cancellazione ad opera del duetto Renzi Delrio, non aveva mai avuto un carattere di gesto definitivo, se già allora c’era chi scriveva (lo stesso Corriere che oggi recita: nel «gallodromo» governativo, dopo gli strilli, la polvere e lo svolazzar di penne tra i galli populisti sulle dimissioni di Siri, il 25 Aprile, i comizi corleonesi, le autonomie regionali, gli striscioni fascisti, i porti chiusi, i soldi per Roma e via così, c’è una new entry: il ritorno delle vecchie Province) che  la Provincia è come la coda della lucertola, quando la tagli ricresce. E magari, viene da dire, a vederne la insostituibilità conclamata.

La Repubblica appena nata  aveva fatto i conti  con la constatazione  che le relazioni tra città e paesi limitrofi stavano divenendo tali da richiedere strumenti di vasta portata. Una serie di esigenze (dai trasporti locali allo smaltimento dei rifiuti, dalla localizzazione delle attività produttive e commerciali alla razionalizzazione dell’agricoltura, dalla tutela dell’ambiente, a quella del paesaggio dall’organizzazione scolastica a quella sanitaria e alla politica della casa) richiedevano che l’impiego del metodo e degli strumenti della pianificazione del territorio fosse praticato non solo alla scala urbana ma anche in una dimensione politica, amministrativa e partecipativa più ampia. Quella comunale aveva confini troppo stretti, quella regionale troppo estesi, così si ripensò a quella  inventate dall’ordinamento napoleonico proprio per risolvere quelli che nel XIX secolo erano i problemi d’area vasta (la riscossione dei tributi, la vigilanza contro l’ordine pubblico) e tenendo conto delle tradizioni locali e dei variegati legami tra città e contado. In ragione di ciò se ne erano tracciati i confini sulla base di criteri di efficienza territoriali: la distanza che può percorrere in un giorno un signore che deve recarsi in carrozza al capoluogo per pagare le tasse, uno squadrone di gendarmi a cavallo per ripristinare l’ordine turbato, che fece propri la Costituzione repubblicana rendendo  le province istituzioni rappresentative di primo grado,  cioè elette direttamente dai cittadini, e le cui funzioni si erano già arricchite in vari settori, dall’agricoltura alla gestione del patrimonio forestale e faunistico, dalla salute alla scuola, alla gestione dei rifiuti.

Certo non bastava, e non sarebbe bastato: i problemi si sono moltiplicati dal controllo e contenimento del consumo di suolo, alla politica della casa, alla promozione dei trasporti collettivi, alla tutela del paesaggio e dell’ambiente e che diventano emergenze  in occasione di disastri o dell’accumularsi di  disagi mentre e le città hanno sconfinato in sterminate periferie, tanto che dagli anni ‘70 ao ’90 si tenne un lungo confronto politico e tecnico sulla dimensione  sociale e amministrativa delle città metropolitane. Tutto quel fervore venne cancellato dall’imposizione di un ente oggetto di aspettative ambiziose e di insaziabili appetiti, vero centro di potere e malaffare ben più che di competenze e azione, le regioni, nelle quali collocare altri meritevoli e intermediari preziosi con target elettorali.

Al governo a guida Pd di Napoleone piaceva solo l’imitazione che voleva farne il bonapartino di Rignano, mentre voleva rafforzare a un tempo la figura del sindaco e valorizzare i poteri dei governatori anche in vista dell’ipotesi federalista pensata per regioni leader delle Pr con i privati (ne ho scritto qui: https://ilsimplicissimus2.com/2019/03/25/golpino-regionale-e-ragionieri-di-corte/). Dobbiamo a quell’ipotesi sconclusionata la raffazzonata riforma di Delrio che disegnava le  Città Metropolitane fotocopia delle vecchie Province, ulteriormente indebolite e “governate da sindaci” che prestano gratuitamente i loro servizi, senza risorse per le poche competenze aggiuntive, le   cui funzioni assegnate sono appunto “le funzioni fondamentali delle Province” (pianificazione territoriale di puro coordinamento, infrastrutture interne e servizi di mobilità, ambiente, rete scolastica). Scatole cinesi, matrioske, delle cui elezioni non ci siamo accorti,  impossibili da governare quando le Regioni vedono “supercittà”  come ingombranti concorrenti nel controllo del territorio (come nel caso della Lombardia che si oppone a ogni richiesta di estensione di quelle attuali), se i sindaci (quello di Milano in testa) attribuiscono scarsa importanza al loro “secondo incarico” posponendo pervicacemente le elezioni dirette stabilite per Statuto, se i Comuni e le Regioni resistono per mantenere inalterate le loro competenze in materia di consumo di suolo, nel timore che vengano adottati criteri più rigidi rispetto ai loro piani e alle licenze concesse a privati e rendite. Mentre avremmo bisogno di quella creatività politica e di quell’audacia che permetterebbe di fare tabula rasa del “sistema Regioni” per dar vita a istituti nuovi che sappiano governare contesti nuovi secondo regole di buona e trasparente amministrazione.

Ma non sarà che hanno fatto tutto quell’ambaradan i nativi di Rignano, Montevarchi, Reggio, per far vedere che sono cittadini del mondo, fan e supporter della globalizzazione e non piccoli “provinciali” che si vergognano dei loro campanili?