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Anna Lombroso per il Simplicissimus

Da ieri “attiviste di tutto il mondo” stanno convergendo a Verona (dove la famiglia ha rotto le scatole dai tempi dei Capuleti e Montecchi) per rispondere “politicamente, e personalmente”, alle tematiche affrontate dal World Congress of Families, giunto alla sua tredicesima edizione, nel corso del quale si  dispensano simpatici gadget a forma id feto, si condannano le sterili volontarie a turpi malattie, vescovi dichiarano ufficialmente assassine quelle che abortiscono, volontarie pregano per convertire gli omosessuali, altri deplorano l’istituto abominevole del divorzio, con tanto di visita pastorale del Ministro dell’Interno non sappiamo ancora con quel travestimento. Speriamo siano tante.

Ma tante non ci saranno, quelle che anche di domenica stanno alla cassa del supermercato, quelle che il fine settimana ancor più che negli altri giorni fanno un secondo lavoro usurante accudendo vecchi, malati, matti, quelle che arrotondano il salario con un part time o che lo cercano in fila nelle agenzie dell’interinale, quelle che sono di turno in ospedali, magari gli stessi picchettati dai pro-life, quelle che cuciono guanti, montano occhiali, stanno alla macchina da maglieria a copiare i golf che Benetton tornerà a fare in Italia dove le lavoratrici in nero costano meno di quelle del Bangladesh, quelle che guidano bus e treni, pagate due terzi del salario maschile, come succede d’altra parte anche nei giornali dove solo qualcuna più “embedded” fa carriera come un uomo, o negli studi legali, o nelle sale chirurgiche, perfino nei campo dove in questa stagione si raccolgono i carciofi e le braccianti nostrane o straniere prendono meno degli italiani e pure degli immigrati, perché il razzismo si declina in tanti modi anche attraverso il sessismo, e in questo caso due volte se la  nigeriana costretta a battere sull’Aurelia dà più soldi al protettore della collega italiana, quelle del cottimo dei call center pagate a contratto concluso e che anche nei giorni festivi ci assediano chiedendo del capo-famiglia, ruolo ormai sempre meno desiderabile e gratificante.

Sarebbe bello se tutte queste donne avessero potuto permettersi una giornata di festa e di lotta, protestando contro la famiglia come la vorrebbero quei prestigiosi congressisti, quella famiglia tradizionale, patriarcale, detentrice e difensiva di rapporti di proprietà, del maschio sulla donna, dei genitori sui figli, repressiva e sempre più arroccata per tutelare prerogative e beni che sarebbero minacciati dal meticciato, dal prevalere di nuclei “anomali”, condannati da una morale indulgente solo con trasgressioni che avvengono in alcune cerchie e promossa a etica pubblica, non è una famiglia felice.

Sarebbe bello che le attiviste che hanno potuto permettersi di andare a Verona, manifestassero con la stessa animosa passione davanti alle fabbriche in via di delocalizzazione e insieme ai picchetti delle lavoratrici, davanti agli ospedali che “governatori”, che dimostrano la loro vicinanza ai temi delle donne ringraziando le femministe per l’appoggio elettorale, “restringono” promuovendo il potere sostitutivo dell’assistenza privata, e insieme, quello non retribuito di madri, figlie, sorelle, mogli. Sarebbe bello che, siccome da sempre pensiamo e pensano che le donne abbiano delle peculiarità di genere che le rendono più attente e sensibili alla qualità del futuro, le militanti considerassero una loro battaglia anche quella contro le grandi opere che distolgono risorse alla tutela del territorio, alla ricostruzione nelle aree dei terremoti e alla sua prevenzione, alla messa in sicurezza di case e scuole, o quella contro le trivelle, contro il sacco e la svendita delle coste, insieme alle tante cittadine costrette all’illegalità perché la casa è diventata un privilegio e non un diritto. O davanti alle scuole dove dovremmo tutte e tutti manifestare ogni giorno e non solo perché un personale soprattutto femminile viene umiliato e ricattato, provocando disaffezione e malcontento, ma anche perché una istruzione pubblica avvilita mortificata e impoverita non è più in grado di trasmettere sapere e valori di rispetto della dignità di donne e uomini, delle loro aspettative e dei loro talenti.

Purtroppo non succede. Qualcuno ha definito quella militanza un femminismo liberale che punta a pari opportunità di potere, come se la massima aspirazione delle donne dovesse essere quella di occupare posti prestigiosi e autorevoli, consigli di amministrazione e poltrone ministeriali, dove imporsi e imporre un modello di supremazia mutuato da quello maschile, o quello di esigere un salario pari a quello dei maschi per lavori parimenti degradati, precari, avvilenti e incerti.  Rottura del soffitto di cristallo, la chiamano, quella dei grattacieli dove si specchia la modernità delle disuguaglianze più inique che riguardano milioni di essere umani meritocrazia, ma che così riscatterebbe un gruppo antropologico discriminato e meno rappresentato ma non tutti i “disuguali”. Come con qualche ragione sostengono le promotrici del manifesto del 99%, contestando che il femminismo liberale voglia il riscatto di un 1% che eccelle e non del 99% delle oppresse a casa e fuori, quelle che i vetri rotti li devono raccogliere in un mondo dove spetta ai poveracci – ma alle poveracce due volte – spazzare e pulire lo sporco di un “progresso” che ha prodotto l’impoverimento e la condanna alla miseria per miliardi di persone, un incombente disastro ecologico, guerre di razzia e ruberia, conseguenti migrazioni di massa e razzismo e xenofobia, espropriazione di diritti che si credevano acquisiti e inalienabili.

Pare succeda proprio come nel caso dell’ambientalismo green che si è arreso alla convinzione che si possano risolvere i problemi prodotti dal mercato con le soluzioni di mercato, così i conflitti e i nodi generati dall’uomo si scioglierebbero con armi “virili”: dominio, esaltazione della differenza come superiorità,  applicazione di procedure e strumenti amministrativi e “meccanici” per garantire più che la parità un più elevato riconoscimento di ruolo. Ogni tanto infatti torna in auge la proposta di partiti di donne, secondo una più estesa accezione di un corporativismo (o sindacalismo) di genere quanto mai stravagante, perché la dice lunga su quanto sia stato normalizzato dal sistema il femminismo in modo da fargli perdere qualsiasi connotato riconducibile alla critica anticapitalista, alla priorità di una lotta di classe che liberi donne e uomini dalla sfruttamento. Considerando secondaria, o almeno successiva, la battaglia contro lo sfruttamento sul lavoro e la mercificazione dei corpi e dell’ingegno, maschile e femminile, come quella per il riconoscimento della funzione di cura e assistenza attribuita alle donne in funzione del profitto. Proprio come, va detto, faceva intendere il marxismo quando voleva persuadere la Djakonova e pure la Kollontaj che la liberazione delle donne fosse un processo integrato e dunque parte del processo  di affrancamento di tutti  con il comunismo o che ne sarebbe stata fisiologica e naturale conseguenza.

Le forze che sostengono concretamente, idealmente e culturalmente il capitale globale hanno imparato bene a dissimulare le loro azioni regressive sotto la vernice del progressismo, valorizzando una scrematura di donne che si fanno avanti e che interpretano un femminismo incentrato sulle libertà e sull’uguaglianza formale, che ricerca appunto l’eliminazione delle diseguaglianze di genere, ma con strumenti che sono accessibili solo a quelle che appartengono all’élite. O sostenendo una serie di istanze che non sarebbe educato definire aggiuntive, ma che diventano tali se si tratta di diritti legittimi che non devono sostituire quelli fondamentali sottratti e alienati.

Contro queste forze da tempo si promuovono azioni: la protesta femminile, come in Argentina, Spagna e anche da noi, percorre gli stessi territori di quella per la difesa dei territori, per il diritto alla casa, alla qualità ambientale, al lavoro. Ma non basta, a sfogliare l’inventario delle quotidiane nefandezze che si commettono nel mondo: stupri, botte, femminicidi, mutilazioni sessuali, lapidazioni delle adultere, i rapimenti per gravidanze forzate. A commetterle sono maschi, che credono di riscattarsi dall’umiliazione umiliando, dalla perdita sottraendo, dalla sopraffazione prevaricando, anche quando si tratta di delitti che avvengono in comode e calde case, usati anche loro né più né meno malgrado la loro rivendicazione di superiorità, per ristabilire i ruoli, in modo che le funzioni riproduttive, e quelle di cura e di assistenza tornino a essere destino femminile, gratuito e non riconosciuto. Così come non sono più riconosciuti i valori del lavoro, i talenti, le vocazioni, il contributo sociale, e la dignità e il rispetto che ne conseguono, grazie a una violenza sistemica che colpisce le donne due volte, sul piano personale e quello pubblico, condannando tutti alla barbarie.

Non solo a Verona, in tutte le piazze dunque ci dovrebbero essere tutte le femmine e tutti i maschi che non considerano i sentimenti, le inclinazioni, gli affetti, i vincoli familiari, questioni da donne, tutti gli sfruttati, i dominati, gli oppressi  con la stessa la volontà di rappresentare un riscatto e una speranza.