Nuova-Zelanda-mitra-1-630x363Avrei voluto evitare di dare un seguito alla strage degli antipodi dove si è improvvisamente accesa la guerra di civiltà in un Paese che sembrava così banalmente e diligentemente evoluto ai confini dell’impero occidentale e del mondo stesso. Ma le cronache e i commenti dei sempiterni “dichiarazionisti” che invocano tolleranza al posto di fratellanza, il che è fin troppo significativo della pochezza di questi appelli, mi ci spingono di forza perché la focalizzazione della vicenda sul suprematismo bianco, ennesimo gadget americano venduto sui mercatini mondiali del prepolitico ed acquistato dai più cretini, è uno strumento di interpretazione così lucidamente ambiguo da dare origine a qualunque fraintendimento. In particolare quello secondo cui il razzismo sia qualcosa di diametralmente opposto alle fumisterie della globalizzazione, mentre non ne è che l’interpretazione più rozza e primitiva.

La Nuova Zelanda è un territorio ideale per diradare un po’ di nebbia vista la sua storia e la sua composizione etnica: il Paese nasce sullo sterminio dei Maori, gli abitanti originali, che privati delle terre dai coloni di origine inglese e ridotti a piccola minoranza sono stati assunti come testimonial di un folklore sospetto e ipocrita. In seguito si sono riversati nel Paese tedeschi, olandesi, italiani e nell’ultimo mezzo secolo asiatici, a cominciare dai vietnamiti legati alle dittature militari di Saigon sostenute dagli Usa, in gran parte di rito cattolico. Solo più recentemente è arrivato qualche migliaio di mussulmani, in particolare dal Pakistan, dunque sebbene scuri di pelle molto più affini ai vecchi invasori che agli aborigeni o anche ai “gialli” insediatisi nelle isole. Il fatto che la follia razzista si sia scatenata contro le moschee e un’insignificante minoranza religiosa, rivela che il disagio non viene dal colore della pelle, ma dalle differenze culturali: l’impero globalista non bada certo alle differenze di etnia, ma alle difformità di cultura, Puoi essere verde, azzurro, fucsia, alto o basso, rappresentare qualsiasi identità di genere, avere qualunque passaporto o non averne affatto: ciò che importa è che tu non esprima una cultura potenzialmente dissonante rispetto al pensiero unico, alla sue prescrizioni e alla sua antropologia di mercato.

Non c’è dubbio che una cultura come quella mussulmana, così pervasa da una religione ancora attiva e non ridotta a mera ritualità e “costume” come in occidente, così arcaica per certi versi, ma anche così resistente alla normalizzazione capitalista sconcerta l’occidente e le sue elites che dopo aver creato il fenomeno del radicalismo in funzione antisovietica negli anni ’70 e dopo aver distrutto i germi di laicità autoctona in medio oriente, ora si trova di fronte a una situazione complessa e liquida visto che anche le espressioni moderate dell’Islam sono comunque resistenti alle concezioni dell’integralismo mercatista. L’ostilità a un pensiero non normalizzato, si traduce in intolleranza e razzismo negli interstizi più desolanti della società dove tutto viene acquisito ed elaborato in termini di pancia e di pelle o di mitra nei casi più disperati:  la Nuova Zelanda dove non esiste un pressione migratoria così rilevante da innescare fenomeni di rigetto, dimostra in modo abbastanza chiaro che si è voluto colpire una differenza culturale non tanto etnica: il suprematismo bianco non è altro che la faccia impresentabile del suprematismo di mercato.