gilet_aranciAnna Lombroso per il Simplicissimus

Ieri era la volta dei gilet arancioni, gli olivicoltori in piazza per protestare contro una manovra che non contempla misure di emergenza necessarie a garantire adeguate risorse al Fondo di Solidarietà Nazionale per far fronte alle pesanti calamità che hanno colpito importanti aree del Paese, a partire dalla Puglia dove si realizza la maggioranza dell’olio italiano e si contano 90 mila ettari di uliveti senza produzione, un taglio di circa 2/3 del raccolto e un equivalente di 1 milione di giornate lavorative perse.

L’altro ieri era stata la volta dei pastori sardi cui il governo ha risposto con un’offerta umiliante alla filiera del pecorino di un prezzo del latte a 70 centesimi con la “speranza” che con il ritiro delle forme in eccedenza entro tre, quattro mesi il listino si alzi a un euro.

Tante volte si è pensato che il riscatto potesse venire da moti del pane, dal risveglio di ceti ridotti alla fame che assaltano i forni e impauriscono i palazzi. Tante volte si è pensato che non si fosse ancora giunti ai limiti della sopportazione, che gli aerei e i ristoranti sono pieni grazie a quei “fondamentali” sani, risparmi, oculati bilanci familiari, nonni che contribuiscono con le loro pensioni a garantire minimi sindacali di sicurezza e speranza per i giovani. Tante volte si è pensato che il progresso si sviluppasse anche dando voce ad antagonismi facilmente conducibili nei canali della negoziazione “democratica”, ancor prima che svariati forconi indossassero le nuove divise di ordinanza sotto forma di gilet, che hanno suscitato l’interesse dei commentatori che vedono in quelli gialli anti Macron l’embrione di fermenti rivoluzionari, come da tradizione, prodromi di un augurabile “regicidio”. E in quelli tricolori il coagulo di una opposizione all’attuale governo, l’auspicato argento vivo che segnala che la temperatura è salita in virtù dell’affermarsi generalizzato di una pallida retorica umanitaria ben attenta a non intralciare il cammino del capitale globalizzato.

Così anche la stampa mainstream, sempre attenta a criminalizzare il movimentismo proprio come i ministri della sicurezza che si sono avvicendati e come i padroni che convocano gli sbirri per risolvere conflitti e contrattazioni complicati, si compiace della spettacolari forme che assume il dissenso, sdoganando il populismo contro i populisti al governo. Succede così non solo perché il corporativismo è l’unica forma di rappresentanza sindacale concessa e accettata in qualsiasi regime autoritario, la più ricattabile e quella che più facilmente si accontenta di appagare bisogni minimi di categoria. E perché uno dei caratteri potenti dei questa contraffazione democratica aiutata da una stampa che in luogo dell’informare giudica sul libro paga, è quello di annegare tutto nell’abitudine: passati i primi giorni, nei quali gli osservatori interrogano i guerriglieri in piazza come fossero fenomeni del folclore regionale, gli mettono il gelato in bocca in qualità di casi umani, li invitano nei salotti televisivi e nelle salette dei Think tank per tastare il polso dello strapaese, tutto si normalizza, tutto diventa breve in cronaca.

E non può essere che così. perché quello che conta è non disturbare il manovratore, ma non quello locale, le maggioranze che si avvicendano al governo, ridotte a droni guidati da distanza con un clic. Ma quello globale, che guarda a questi infimi accadimenti con interesse minore di quello di un entomologo con lo spillone pronto a infilzare l’insetto che batte le ali invano.

È per questo che il flash mob dei pastori incazzati ha incantato gli spettatori virtuali, che la bara piena di bottiglie d’olio davanti a Palazzo Chigi è uno spot che vale il premio della pubblicità, perché vengono presentati  e replicati come incidenti sulla strada del progresso, come effetti collaterali dello sviluppo che non può né deve essere ostacolato da questi arcaici borborigmi che arrivano dalla pance – vuote – delle lontane province. Meglio dunque non ricordare che le quote latte sono una delle declinazioni tra le più infami delle politiche coloniali europee rivolte anche ai danni del terzo mondo interno, che con una produzione praticamente dimezzata, è stato l’olio extravergine di oliva Made in Italy a subire gli effetti più pesanti del cambiamento climatico con una strage che lo scorso inverno ha compromesso 25 milioni di ulivi in zone particolarmente vocate e fatto crollare il raccolto che quest’anno si aggira attorno ai 200 milioni di chili, un valore vicino ai minimi storici per la pianta simbolo della dieta mediterranea e che per un combinato disposto dei due fattori per la prima volta nella storia la produzione spagnola stimata quest’anno in 1,6 miliardi di chili è superiore di oltre sei volte quella nazionale che potrebbe essere addirittura sorpassata da quella della Grecia e del Marocco.

E dire che di dissenso ce n’è e ce n’è stato in questi anni, in Sardegna militarizzata ci sono comitati che si battono da anni contro la svendita del territorio al turismo di lusso di sceicchi ed emiri e ai signori delle guerre, in Puglia intere geografie si rivoltano contro le trivelle e Tap, in tutti i centri urbani ci sono coordinamenti di lotta per la casa, si stanno riorganizzando quelli che denunciano il tradimento del pronunciamento per l’acqua pubblica. E ci sono operai che resistono alle delocalizzazioni, che in piazza ci sono magari andati sabato scorso sperando di trovare posto in quella unità artificiale, padroni compresi, e che hanno scoperto che hanno così aderito ai Si-Tav e diviso la piazza con quelli che pensano che il reddito di cittadinanza (che non mi ha certo convinto) sia peggio delle mancette di Renzi, perché garantirebbe un provento troppo alto rispetto ai salari da fame che i disoccupati troverebbero sul mercato del lavoro, o di quanto guadagnano attualmente gli occupati, grazie all’accettazione da parte dei sindacati di politiche e misure inique. E che possa indurre a un neghittoso scoraggiamento in quelli che non cercano attivamente lavoro per via di due considerazioni inoppugnabili: l’alta percentuale di disoccupati e le condizioni, retributive e non retributive (orari di lavoro, precarietà, intimidazione e ricatti), che attendono i più fortunati premiati da una assunzione a termine, con contratti anomali e capestri.

Bisognerebbe davvero che non lasciassimo soli quelli che lottano invece di appagare il nostro senso di giustizia con una umanitarismo sempre più esangue che non ha la forza né la volontà di contrastare il sistema.

Altrimenti dobbiamo dar ragione a chi,  analizzando i conflitti che da qualche anno incendiano ricorrentemente  le maggiori società occidentali contrapponendo la cerchia antagonista e il ceto dirigente,  società civile e élite, sostiene che l’esercito di chi ha troppo e comanda avrebbe dovuto soccombere, essere spazzato via da noi “straccioni” in gilet o coi forconi, se non ci avessero persuasi che i suoi interessi coincidono  con quelli di buona parte della collettività.  È proprio questa la grande menzogna che va smentita, se il “loro” sviluppo indirizza gli investimenti a beneficio delle cordate padrone della Tav e non sui treni dei pendolari, se l’istruzione pubblica è penalizzata e le carriere si dischiudono davanti alle dinastie degli abbienti, se le politiche urbane promuovono l’edilizia del lusso e del terziario costringendo all’esodo gli strati sociali più bassi, se  la lotta al cambiamento climatico affida al mercato il contenimento dei danni che crea, se gli ulivi di Puglia sono ridotti a paesaggio agricolo a beneficio dei turisti e le coste sarde vengono saccheggiate, sventrate e svendute. Non fidatevi di chi invece di chiamarvi popolo vi chiama populisti-