KING KONG VS. GODZILLA, (aka KINGUKONGU TAI GOJIRA), Shoichi Hirose, 1962Una delle cose che odio è l’auto referenzialità, ma la censura su Facebook di cui gode questo blog, badate bene non un temporaneo blocco dell’account come è successo molte volte e nemmeno la messa al bando di un singolo post, ma di tutto il sito con la cancellazione anche di articoli pregressi, rappresenta così bene lo stato del sistema da essere un’occasione irresistibile di commento. A cominciare da quella democrazia enunciata e simulata che mantiene in piedi le forme rituali della rappresentanza dentro un meccanismo che la manipola e la controlla svuotandone il senso: l’ostracismo in questo come in altri infiniti casi, avviene in base a  “regole della Community”, mai specificate nel concreto e quasi sempre banalmente algoritmiche: si tratta però di regole che nessuno ha mai discusso con la community stessa, ma vengono imposte e costruite secondo gli interessi della società a scopo commerciale che gestisce il social network. Insomma la parola è quella, ma i fatti non hanno nulla a che vedere con l’idea di community che chiaramente deriva da comunità. Secondo Stan Garfied , uno dei maggiori teorici dei social media una community dovrebbe avere alcune caratteristiche tra le quali l’essere indipendente dalla struttura dell’organizzazione e dunque costruire una propria logica a partire da regole di base come l’assenza di offese e volgarità. Insomma un social network dovrebbe essere un luogo di confronto e scambio e non di negazione del medesimo.

Poi abbiamo l’infantilismo verso il quale ci trascina irrimediabilmente il sistema neoliberista. Questo si concreta nel fatto che un social network planetario nato come luogo di contatto per gli studenti dell’università di Harvard , si sia ingigantito come una piovra, ma sia rimasto al suo stato embrionale, ovvero un sistema per scambi esclusivamente personali e individuali, ignorando completamente le sue stesse dimensioni e il fatto di essere divenuto luogo di dibattito e di diffusione di notizie. E’ un po’ come un neonato grande come King Kong. Ora indubbiamente Facebook è stato creato in un contesto culturale dove esistono principalmente individui mentre la società non è altro che la regolamentazione delle interazioni fra di essi, ma proprio l’espansione ad altri contesti culturali ne avrebbe dovuto cambiare il senso e le intenzioni. Invece basta che una sola persona ritenga fastidioso o scomodo un qualche intervento che può far scattare un blocco, come se le idee e le tesi fossero rapportabili a scazzi tra persone. Ovviamente questo che era semplicemente un aspetto rudimentale e perfettibile del social network si è rivelato invece molto comodo quando Facebook si è alleato coi poteri forti per così dire, divenendone  parte ( e non poteva essere altrimenti): tale meccanismo è diventato un’arma per attenuare la diffusione di idee in contrasto col mainstream perché bastano poche persone per far strage di opinioni on line, ma non in linea. A parte ovviamente i cretini che sono una realtà ineliminabile. In realtà visto che c’è la possibilità di escludere e bloccare tutti gli account che si vogliono questa misura è del tutto superflua e tra l’altro  in contrasto ideologico con il presupposto di un network fra individui.

Ma c’è un terzo aspetto divenuto preponderante e in relazione al quale gli  aspetti precedenti divengono funzionali al business: l’ossessione pubblicitaria nel tentativo  di mantenere il valore di Facebook non dico coerente, ma quanto meno non galatticamente distante dalla sua quotazione borsistica. Con una media mondiale di circa venti dollari l’anno di pubblicità per utente (circa 82 in Usa) siamo lontani mille miglia dai 500 miliardi di valore azionario del network, anche contando il lucroso affare della vendita dei dati e in un certo senso dei comportamenti delle persone, come ha rivelato lo scandalo Cambridge Analytica. Insomma Facebook è in qualche modo una bolla borsistica e dunque chi produce contenuti che hanno una certa diffusione, sia pure minima, ma superiore alla media viene bombardato da richieste di diffondere meglio i propri contenuti in cambio di denaro. Infatti ormai è impossibile postare più di tanto  pena l’infamante accusa di spam: da un anno a questa parte sono stati interdetti tutti gli strumenti e le applicazioni che permettevano di diffondere in automatico su Fb, persino sulla propria pagina. Non parliamo poi della distribuzione magari in contemporanea o  con una scansione temporale ravvicinata fra amici e gruppi. Del resto basta fare un breve giro sul web per accorgersi che hai due sole possibilità: o essere un individuo che deve consumare o essere un’azienda che deve monetizzare, tutte le altre infinite prospettive non hanno senso dentro questo spirito del tempo. Chiaramente Facebook sta cercando di creare le premesse per diventare un social network a pagamento, quantomeno per chi produce contenuti che non siano lo stato o il mi piace: solo così potrà colmare lo iato gigantesco tra il suo valore e i suoi ricavi. Tanto più che ormai ha raggiunto la sua massima espansione e nell’ultimo anno ha mostrato qualche segno di flessione sia nel numero degli account, sia, anzi soprattutto. nel tempo di permanenza. Piccole percentuali che tuttavia diventano un importante 10% tra i più giovani, attratti da forme di comunicazione ancora più basiche ed esclusivamente visive.

Ecco dunque il contesto nella quale una censura assume diversi moventi e significati tutti comunque convergenti verso forme di costrizione del pensiero, verso un’eugenetica dei memi per chi ha letto Dawkins. E non c’è posto migliore per ottenerla che questi grandi contenitori i quali fungono da brodi di coltura per chi studia i meccanismi del controllo.