giulio-andreotti-235777 Anna Lombroso per il Simplicissimus

Sapeste come mi mancano Fruttero e Lucentini e la loro mirabile analisi dell’idealtipo italiano prevalente, il cretino. Immaginando che pagine ci avrebbero regalato per quella pratica ancora così in uso, secondo la quale chiunque abbia avuto il coraggio civile di morire, si guadagna così l’oblio delle colpe e il diritto meritatissimo  di poter essere chamato “povero”. In questi giorni si pratica la smemorata pratica redentiva appunto con il “povero Andreotti”, scomparso prematuramente secondo alcuni agiografi, non avendo raggiunto i 100 anni che cadono appunto nel 2019.

È stato oggetto di commemorazioni nelle aule parlamentari e per l’occasione ha visto la luce  un aureo volumetto  “I miei santi in Paradiso. L’amicizia di Giulio Andreotti con le figure più note del Cattolicesimo del Novecento”, scritto dal reggente della Prefettura della Casa Pontificia, monsignor Leonardo Sapienza, e dal giornalista Roberto Rotondo, edito dalla Libreria Editrice Vaticana e  presentato, avevate dubbi?, nella Sala Zuccari del Senato,  dove è stata anche rammentata la memorabile definizione che ne diede un altro “statista”  democristiano ancora vivente, Giovanardi, riprendendo Montanelli: sapeva parlare col prete, ma anche con Dio. L’incontro scrivono sobriamente le agenzie, ha offerto spunti di riflessione sull’impegno sociale e politico dei cattolici oggi e per ricordare la figura e l’opera politica di Andreotti, mettendo in luce quel talento speciale che gli permetteva di passare per la quotidiana benedizione mattutina in chiesa e magari anche di confessarsi, per poi andare a intrattenere più terreni rapporti con mafiosi, banchieri criminali ma vicini alle gerarchie pontificie, già molto attivi, recarsi al ministero, uno dei tanti sui quali ha governato,  a tenere con mano salda una efficientissima organizzazione amministrativa di clientele, favoritismi, familismi in tutti i settori, invidiatissima e che vanta ancora migliaia di tentativi di imitazione.

A guardarsi intorno solo uno è sembrato eccentrico rispetto alla misericordiosa uniformità di giudizio a posteriori, o, come si dice a Roma, a babbo morto: Gian Carlo Caselli che ha parlato del “masochismo istituzionale di chi celebra Andreotti”, rimuovendo opportunamente il “verdetto di provata colpevolezza fino al 1980, per aver commesso (commesso!) il delitto di associazione a delinquere con Cosa nostra”. E pare che almeno un esponente de 5stelle abbia protestato, ma subito accusato di vilipendio di un padre fondatore.

Non siamo certo nuovi alla potenza dell’ideologia politicamente corretta che è riuscita a decontestualizzare figure e fenomeni storici, per metterli a cuocere nel pentolone dove la destra liberista e capitalista insieme alla “sinistra” moderata e riformista   riducono a un’unica marmellata da propinarci sul poco pane concesso le privatizzazioni, la liberalizzazione dell’economia, la precarizzazione del lavoro e, come in questo caso, la coesistenza o addirittura l’integrazione della teocrazia del mercato con la fede cristiana.

Così anche la pietà e la carità e altri valori diventati commerciali, si possono scambiare, comprare, consumare e diventare oggetti  di culto per salvare la reputazione più che la coscienza, che ormai con le innovazioni introdotte nel campo dei detergenti si lava facilmente: basta appunto collocare in primo piano il trattamento riservato ai disperati, che fuggono da guerre e carestie prodotte da politiche coloniali e imperialiste cui in passato il Divo Giulio non è certo stato estraneo, imputando la ferocia solo all’empio contemporaneo e il gioco è fatto. Basta stabilire tramite tweet la sostanziale differenza tra ingenerose mancette del passato e pelose elargizioni attuali, e il gioco è fatto. Basta accreditare l’esposizione delle terga dei miserabili calabraghe  trascorsi come doverosa assunzione di responsabilità sociale e deplorare quella dei calabraghe vigenti come indecente concessione a poteri impiccioni e autoritari, è il gioco è fatto.

Eh si, ci vorrebbero Fruttero e Lucentini che aggiungessero altre pagine a quelle dedicate a un’altra attitudine nazionale a attribuire al paese e al popolo tutta una serie di primati, e tutti negativi: “l’Italia è l’unico paese al mondo dove gli stagni di acqua salata non sono protetti dal Demanio”, o “l’unica nazione dove ci sono più bidelli che medici … o viceversa”, scrivevano. O “l’unico posto dove si spende più in champagne, che in fiori per i defunti”, portando esempi surreali tante volte ripetuti e tante volte ascoltati e letti e ora proferiti online in qualità di ammissioni di inferiorità, irresponsabilità, incompetenza e cronica arretratezza, pronunciati tra il sarcastico e l’amaro, scuotendo la testa. Allora a loro due come a noi parve quasi un fenomeno salutare dopo la sbornia del made in Italy, del paese con il più elevato numero di beni artistici patrimonio Unesco, e che vantava anche la leadership dei mocassini più smart, del caffè più aromatico, della pasta che non scuoce e delle forchette di designa più immaginifiche per arrotolarla intorno. Ma allora si potevano vantare altri primati: quello dell’assistenza medica pubblica più egualitaria e efficiente, quello della legislazione del lavoro più avanzata e rispettosa dei diritti e delle conquiste.

Tutti cancellati e non da ora, che al trionfalismo alla rovescia di allora possiamo aggiungere il nuovo repertorio di moda del partito dei peggioristi: questo è il peggior governo, quello è il peggior ministro dell’Interno, questa è la peggiore manovra mai prodotta, quello è il peggior ordine che abbia mai regnato, se perfino la sorella di un morto per mano delle forze dell’ordine si mette a fare graduatorie, imputando l’assassinio di un ragazzo affidato allo Stato con un fermo nel 2008, a un nuovo corso degli “sbirri”  legittimati proprio adesso alla repressione violenta dalla concezione aberrante della sicurezza secondo la coalizione al potere.

C’è poco da sperare se ha il sopravvento questa narrazione che dimentica il passato e le responsabilità, così da guadagnarsi una nuova unicità, quella del popolo più smemorato che dell’oblio ha fatto l’alibi per chiamarsi fuori, del rimpianto perfino di Andreotti  e ancor più del Cavaliere ancora irriducibilmente esistente, il ritornello che accompagna la lagna malmostosa cui sono ridotte critica e opposizione.