la-linguetta-di-carlo-calenda-950181Anna Lombroso per il Simplicissimus

Uno spera sempre che certi astri che brillano sia pure fiocamente siano in verità solo meteore che transitano veloci ed effimere. Invece no, sono stelle fisse in un firmamento spento nell’attesa dell’apocalisse che a volte sembra desiderabile perché così un cambiamento si verifica.

Così succede che seduti nella sala del planetario sotto la volta celeste nazionale ci tocca vedere, sempre là, Carlo Calenda, pronto a concorrere per il Parlamento Europeo da dove nel solco della tradizione, collaborerà per farci diventare la Grecia di domani.

Però stavolta voglio spendere una parola buona riconoscente per l’augusto esponente del delfinario dei piani alti romani, figurina di spicco di una delle celebrate dinastie del generone, nipote di Comencini, figlio della figlia del celebre regista e sorprendentemente regista anche lei,  e di un economista prestato alla nomenclatura bancaria e alla diplomazia quirinalizia,  pur vantando un antico ceppo nobiliare partenopeo, e autore tra l’altro di un libro intitolato “Orizzonti selvaggi” (come l’amato capitalismo?).

Perché grazie alle sue origini e al lignaggio ( mammina racconta che ha respirato numeri fin da piccolo nel box, sentendo lei e papino prepararsi agli esami  per la laurea in economia), alle referenze tra le quali si registra come fonte autorevole anche il Morandini per via del suo cameo nei panni del piccolo Enrico televisivo nel Cuore di nonnino,  e ancor più grazie alle sue performance da quando è entrato a buon diritto nel Gotha degli ufficialetti ambiziosi dell’esercito dell’imperatore (ragazzo di bottega di Montezemolo, inanellando una catena di incarichi all’ombra del collezionista di fallimenti, che lo ha voluto al suo fianco in qualità di assistente in Confindustria, in Ferrari,  nella società dei treni veloci, e poi da solo, già grandicello, in Interporto Campano  fino all’empireo governativo per la scalata al quale l’ha certo aiutato il tirocinio nel Think Tank Italia Futura), grazie a tutto questo si spera che persuaderà finalmente gli ultimi irriducibili, ancora deliziosamente e ingenuamente confusi, che il Pd, con o senza simbolo alle lezioni, i principi  cui si ispira, i suoi apparatcik nulla hanno a che fare con tradizione e mandato della sinistra.

E che se proprio li si vuole collocare in qualche ambito, e se il progresso è come Giano, si potrebbe dire che l’azienda in fallimento e i suoi becchini (intenti  come nei film americani dei liquidatori a fare a pezzi  imprese e dipendenti conservandosi però una presidenza nel CdA con annesso gettone) altro non sono che l’altra faccia arcigna avida e feroce della divinità bifronte, quella che oppone a cura delle malattie, scienza, innovazione  e tecnologia, accesso all’istruzione e all’informazione, il loro   impiego e la loro detenzione aberrante in regime di esclusiva e  il loro strapotere che ha incrementato disuguaglianze cruente e tremende differenze.

Eh si il ticket Calenda-Zingaretti potrebbe davvero spazzare via gli eventuali equivoci e far intendere che quel pugno di voti che conquisteranno rappresenta solo il triste target degli ormai scarsi diretti beneficiari, e che ormai quelli che circolavano intorno alla bandiera – magari senza simbolo-  per tradizione, convinzione, illusione, dovrebbero aver capito da tempo che non c’è trippa per gatti in cerca di emozioni riformiste e paggio che mai di sinistra. In fondo è dai tempi della Bolognina e del Lingotto che la dirigenza erede del partito capostipite ha fatto  atto di abiura, come se la testimonianza e rappresentanza degli sfruttati, con tutta evidenza scrocconi, parassiti, indolenti, mammoni, finti invalidi,  fosse un vizio di cui pentirsi in favore della difesa degli interessi di un ceto moderno, arrivista, spregiudicato, ambizioso, magistralmente simboleggiato dai manovali di Gekko di Wall Street.

D’altra parte  a differenza del temporaneo socio d’impresa, Calenda, bisogna ammetterlo, non ha mai finto di essere diverso da quello che è. Quando è sceso in campo per difendere i lavoratori di una impresa l’ha fatto solo per rimarcare l’offesa personale che gli è stata recata mettendolo davanti al fatto compiuto, oltraggiando il suo ruolo di ministro di un paese industrializzato che aspira a soggiornare nel salotto dei grandi – pensate all’Embraco – invece di autorizzarlo a esercitare il ruolo primario di cassamortaro, come con l’Ilva, allegoria esemplare  in virtù della quale ha potuto stabilire per i padroni la libertà assoluta di inquinamento e di cancro. Non  ha mai nascosto la sua passione non hobbistica per le privatizzazioni, soprattutto se inserite nel quadro più ampio della sudditanza finanziaria economica e commerciale agli Usa, perché lui si piega a accontentarsi delle lezioni europee, ma, a pensare alla sua passionaccia mai estinta per TTT, Ceta e simili, per l’ombrellone Nato, per le doverose imprese coloniali dell’impero, aspirerebbe alle primarie Usa se proprio non si può a quelle per il governo globale del mondo. Da dove potrebbe gestire il mercato del lavoro secondo le radiose visioni del manifesto ordoliberista del quale è stato coautore: “Verso la Terza repubblica” coi più nauseanti avanzi del sindacato dello “siamo tutti nella stessa barca”, nel quale si postula il principio che le aziende devono essere libere da ogni vincolo e ostacolo al profitto e allo sfruttamento. Facendosi così portavoce di una sua utopia del lavoro per la quale gli operai potranno stare meglio diventando magazzinieri di Amazon, e perfino, i più fortunati,  viaggiando, se acconsentiranno a muoversi secondo l’onda delle delocalizzazioni o integrandosi negli esodi delle masse di manovalanza imposti dal nuovo ordine  mondiale che sposta etnie popoli dove possono essere meno garantiti, pagati, rispettati, italiani come stranieri, resi uguali   dallo stesso destino di servitù.

Se ci tenete alla chiarezza, dovete essere grati a uno come lui, che non potrà mai essere considerato un “meno peggio”, dissuadendovi dal tesseramento nel partito dei malminoristi (quello descritto qui: https://ilsimplicissimus2.com/2018/12/24/il-partito-dei-malminoristi/).

Adesso nessuno potrà dire la parola democrazia associandola a quella formazione senza essere preso per matto, adesso nessuno potrà dire che il Jobs Act, la Buona Scuola, il Salva Italia sono state riforme, pena l’apologia di reato, adesso più che mai nessuno potrà confondere il Pd con la sinistra anche se ormai sembra siano morti tutti e due. Che ne dite se ne seppelliamo uno e pensiamo a come soffiare un po’ di vita nell’altra  della quale c’è un gran bisogno?