Anna Lombroso per il Simplicissimus
Almeno una volta è capitato a qualsiasi veneziano che si sia trovato a passare per Piazzale Roma, di essere apostrofato da un turista automunito che gli chiedeva dove doveva girare con la macchina per arrivare a Piazza San Marco. È che i milioni di viaggiatori che prima o poi nella vita “devono” recarsi a Venezia, come un imperativo imprescindibile, come un diritto inalienabile di cittadinanza del mondo, ci arrivano perlopiù impreparati, sbigottiti e disorientati dalla sua unicità. E infatti a sera succede di incontrare lo stesso turista stremato che si riprende dallo spaesamento che la serenissima provoca e si compiace di essere tornato, insieme a migliaia di altri galeotti dei pellegrinaggi, nel suo habitat, seduto in mezzo alle auto al tavolino del bar del garage come Calindri nella pubblicità, rassicurato dalla colonna sonora dei clacson, dalla puzza dei gas, dal conforto del navigatore che gli indica la strada verso casa.
Da adesso lui, come gli altri arrivati da ogni dove con ogni vettore, penserà di avere ancora più facoltà di girare come gli pare nella città, di recarle offesa, di invaderla esercitando il suo diritto di proprietà su un patrimonio di tutti. Non c’è come l’imposizione di un balzello su un bene comune ad autorizzare quello che già in molti si sono premessi: un bel tuffo dal Ponte di Rialto, un picnic in Piazza San Marco, magari disegnando due cuoricini col pennarello sulle colonne, una passeggiata in bicicletta in Fondamenta degli Ormesini, una pipì in Bacino, perché così si intende una città a misura d’uomo in tempi nei quali è consentito riprendersi a pagamento lo status di animali.
Come all’Elba, come in Oman, come nelle Eolie, come nel centro di Londra i turisti che vogliono entrare a Venezia dovranno pagare un ticket d’ingresso, una somma tra i 2,5 euro e i 5 ( a seconda della stagione) che andrà a sostituire la tassa di soggiorno e che potrebbe addirittura arrivare fino a 10 euro in periodi di altissima stagione. E come accade già in altre località turistiche, il ticket consisterà in un sovrapprezzo del biglietto delle compagnie aeree, navali o di trasporto su terra e delle agenzie e saranno poi le stesse aziende a girarle al Comune, che, come ha proclamato esultando il sindaco, spenderà l’agognato gruzzolo a beneficio dei residenti, determinando un inevitabile effetto paradosso, quello di promuovere anziché disincentivare il flusso ininterrotto per fare cassa. E siccome non c’è profitto che sia equo, a essere penalizzati non saranno i “giornalieri”, le carovane dei forzati dell’immersione nella disneyland lagunare in procinto di affondare per cogliere l’attimo fatale, scesi dal pullman o dalle navi da crociera (in quel caso smaniosi di tornare a bordo e stare sul ponte del settimo piano a guardare le formiche indigene), e che si trascinano nelle calli inseguendo l’ombrellino della guida, ben attenti a non consumare bibite e souvenir troppo esosi e a farsi i selfie a imperitura memoria. Per loro è certo che molto presto si troverà una soluzione come succede con gli abbonamenti per i vaporetti, a conferma di sconcertanti residenzialità garantite dal brand del turismo scappa e fuggi. Perché è chiaro che si tratta di una di quelle proposte raffazzonate pensate per soffiare un po’ di fumo negli occhi in vista della voluta impossibilità di effettuare controlli e che saranno invece sottoposti al pagamento obbligato del balzello quelli che a Venezia tutti i giorni ci vengono per lavoro, per studiare o insegnare, che arrivano in bus, treno e che non sfuggiranno ai controlli così come avevano dovuto sottoporsi alle forche caudine dei ridicoli tornelli.
La gabella, la tassa di scopo o non, raramente ha un fine “pedagogico”, ancor meno dissuasivo da peccati e vizi, se attrezzature confessionali e culturali ne arricchiscono il consumo con l’aggiunta ghiotta del peccato. Peggio ancora se chi paga non ha in cambio un beneficio concreto: non gira con l’auto per le calli, non ha un biglietto per il tour del Canalazzo, o per entrare ai Piombi e farsi un selfie con il fantasma di Casanova. E se già adesso si sente autorizzato a impilare i sacchetti delle sue scoasse in forma di piramidi in Piazzetta dei Leoncini, uno dei felini che ha avuto l’onore della cronaca per essere stato generosamente verniciato di rosso da creativi studenti di Architettura e dell’Accademia di Belle Arti, o di farli navigare come la bianca Ofelia per i rii, e se già ora si diverte a fracassare bottiglie in Strada Nuova pronto a una battaglia carnevalesca tra vandali come durante l’Oktoberfest, o si fa il bidè con l’acqua delle fontanelle, figuriamoci se adesso, che paga, spende e pretende, si farà qualche scrupolo.
D’altra parte perché mai dovrebbe se il primo cittadino, i governi che si sono succeduti sono all’avanguardia del cattivo esempio, se proprio loro e qualche veneziano sleale trattano la città come una merce in svendita da barattare e consumare. Se con questa misura la condannano a un destino di parco tematico, della caduta di una superpotenza del passato ridotta a fiera paesana, con i pochi abitanti superstiti impegnati in attività servili, espulsi, a volte volontariamente, dalle case per far posto a un albergo diffuso di palazzi e stamberghe, a botteghe con prodotti offerti dal supermercato globale, uguali qui come a Dubai, in attesa di collocare Venezia dentro un teatrino da sceicchi con tanto di grattacieli sullo skyline.
Addirittura si vantano di voler trasformare una città in museo, con doveroso biglietto di ingresso ma senza guardiania e senza residenti diventati presenze fastidiose a meno che non si prestino in costumi settecenteschi a molestare i passanti offrendo incresciosi concertini di Vivaldi rivisitato e Galluppi manomesso al sintetizzatore, in livrea di facchini preliminare al riuso della portantina al posto del risciò, o in abito da locandieri o osti a dispensare ombre e cicheti della grande distribuzione. Si vantano di investire sul turismo, un tallone di piombo con un indice di pressione «pari a 10,34, molto superiore al 6,28 di Firenze e al 3,14 di Roma», che ha superato tutti i limiti di sopportabilità stabilito in 7,5 milioni all’anno come valore ottimale, in 12 milioni all’anno come massimo sostenibile, che invece ha oltrepassato i 28 milioni, nella morte della città dunque invece che sulla sua vita. Qualcuno ha parlato di simonia, riferendosi non soltanto alle proposte di caffetterie sulla terrazza absidale del duomo di Napoli, agli aperitivi sui ponteggi del restauro della facciata di San Petronio o del tè all’Opera, intesa come Opera del Duomo di Siena , ma a un proliferare di balzelli e ostacoli che fanno mercimonio del patrimonio storico e artistico del Paese impedendo accesso e godimento da parte dei cittadini italiani che lo mantengono con le loro tasse, per officiare i riti del dio turismo come “salvavita economico”, promuovendolo e incentivandolo e competendo per attrarre navi da crociera, nuove linee aeree, nuovi hotels, condannando città e nazioni a adattarsi a essere derrata da prendere e consumare.
E dire che in Italia è nata la cultura della conservazione e del recupero dei centri storici, della loro qualità straordinaria che non consiste solo nei «monumenti principali», ma nel complesso contesto stradale ed edilizio, nell’articolazione organica di strade, case, piazze, giardini, nella successione compatta di stili e gusti diversi, nella continuità dell’architettura «minore», che di ogni nucleo antico di città costituisce il tono, il tessuto necessario, l’elemento connettivo, in una parola l’«ambiente» vitale. E dire che la Costituzione ha assegnato al patrimonio storico e artistico della Nazione una missione nuova e originale al servizio del nuovo sovrano, il popolo, aspirando a fare delle città, del paesaggio i luoghi dei diritti della persona, i capisaldi su cui costruire eguaglianza, un mezzo per includere coloro che erano sempre stati sottomessi ed espropriati.
E dire, per restare nei confini ristretti disegnati da un ceto dirigente affetto da tutte le patologie del carattere distruttivo, ce ne sarebbero di modi per contenere gli effetti collaterali del godimento dei beni posizionali, la smania dissipata di essere tutti contemporaneamente nello stesso posto nello stesso momento: favorire la prenotazione con dei vantaggi, riducendo il biglietto dei trasporti o dei musei, realizzare dei terminali sulla gronda lagunare e trasportare i turisti a Venezia, anche in maniera lenta con delle imbarcazioni, promuovere un circuito corretto di comunicazione per informare chi vuole arrivare della particolarità del luogo in cui si sta recando e fermare definitivamente il passaggio e il flusso crocieristico e con esso la fortuna degli speculatori del fango e dell’acqua che sono stati premiati proprio in questi giorni dalla decisione del rafforzamento del Canale dei Petroli per assicurare per l’accessibilità al porto da parte delle grandi navi.
In America sono 27 le imitazioni di Venezia, in Brasile dicono ammontino a più di 20, si dice che lo Stato del Venezuela debba il suo nome al fatto che l’area di Maracaibo è costruita su palafitte, non si contano le mini-serenissime in parchi di divertimento e città-casinò. Presto dovremo farcele bastare che la Venezia vera ce la siamo giocata come a Las Vegas.
Adoro le dolorose scorribande di Anna Lombroso perché ne condivido il dolore. In questo caso la sofferenza è altissima.
Mi ricordo di una macchina targata Torino, primi anni ottanta, Piazza Roma, fermarsi in una sera di tenera primavera davanti a me e ai miei amici, abbassare il finestrino e chiedere “Scusate, la strada per Piazza San Marco?”.
Il mio amico, educatamente, cercava di fornire le prime essenziali informazioni sulla morfologia della città storica di Venezia, e loro erano lì, a abbeverarsi alla fonte della conoscenza. Io, maleducata dentro, non sono riuscita a trattenermi dal ridere, una risata isterica e allegra insieme, e mentre ridevo davo a quella simpatici 40 enni di Torino, dei ” ignoranti inauditi, dovreste fare un corso prima di mettere piede nella mia città “.
Invece del corso hanno fatto una corsa, sgommando verso Mestre.
Ne ho altre, ma mi fermo qui.
Tutto vero, dolce Anna.
Avrebbe dovuto esserci un PRG che trasferisse il caos distributivo a Fusina, ma dopo aver chiamato fior di urbanisti (Benevolo) a redigere il PRG e dopo aver visto il PRG fare tale indicazione vincolante, il PRG è stato tombato dal governo che l’aveva realizzato. Niente approvazione. Erano governi di ” sinistra” ma con idee di destra, perché il profitto fine a se stesso ha reso Venezia una città morta. Emblema Venezia, se nessuno li ferma, dei centri storici di tutta Italia o Europa, con o senza canali d’acqua.
Il profitto non si ferma, se non davanti al deserto. Che è sempre ciò che lascia, per spostarsi a fare altri deserti in altri luoghi.
Pur avendolo scritto diverse volte su questo interessantissimo blog che mi ha ospitato con enorme cortesia, ecco, lo ripeto: il Pianeta è uno, non ne abbiamo altri. Le sue risorse naturali non sono infinite, la capacità di rigenerazione è molto ma molto più lunga dei tempi umani e figuriamoci del consumismo.
Noi umani siamo come un virus, in 50 anni siamo raddoppiati di numero e di desideri. Ma non tutti potranno vedere esauditi i loro frettolosi desideri, tantomeno quello di fare a Venezia tutto quello che gli pare, fosse pure la pipì in Bacino.
Si può leggere:
https://comedonchisciotte.org/forum-cdc#/discussion/100502/nuovo-anno-per-nuovi-pezzenti