imageOggi mi voglio occupare di cose che possono parere un po’ astratte, ma che invece acquistano una straordinaria concretezza nel momento in cui esse sono determinanti per i bilanci dello stato o degli enti intermedi, delle infrastrutture del Paese e del benessere di cittadini. Mi riferisco alle cosiddette grandi opere e ai  motivi per i quali esse sono oggi quasi sempre un buco nell’acqua: da ormai qualche lustro si ritiene che la loro praticabilità derivi dal fattore tempo ovvero dall’essere realizzate in archi temporali relativamente brevi per non andare incontro a una rapida obsolescenza e diventare pressoché inutili. L’accelerazione tecnologica, l’accumulo di nuove tecniche o di nuove conoscenze, il cambiamento delle situazioni e delle condizioni in cui si opera spesso trasformano queste imprese in realizzazioni superate ancor prima di essere ultimate o ancor addirittura dannose perché l’aver scelto una strada può far tramontare soluzioni che possono rivelarsi più efficaci,  mentre gli impegni e gli interessi finanziari che esse comportano rendono impossibili le marce indietro, le trasformazioni radicali in corso d’opera, i ripensamenti.

Ovviamente qualsiasi scelta comporta un rischio, ma se tra ideazione e realizzazione passa troppo tempo, quasi certamente ci si troverà di fronte a un errore. Questo fenomeno è particolarmente visibile in Italia dove le grandi opere sviluppano già a monte un vasto meccanismo corruttivo che richiede come suo modus operandi concreto eterni rinvii e piccole revisioni in corso d’opera a giustificazione di prezzi d’asta troppo bassi e costi reali troppo alti determinati da meccanismi tra affari e politica che finiscono per avere una forza d’inerzia insormontabile. Uno degli esempi di scuola è la Tav Torino Lione, pensata alla fine degli ’80 quando in base ai dati del traffico in aumento si pensava che ben presto le linee già esistenti sarebbero state insufficienti. Ma tra le intenzioni di massima e l’inizio della progettazione effettiva è passato un decennio abbondante durante il quale i dati del trasporto hanno subito un costante declino che si è andato sempre più evidenziando quando dopo 15 anni sono cominciati i primi effettivi lavori. In pratica l’enorme tunnel che  era il cuore del progetto e che l’Italia pagherà in gran parte benché corra solo per un terzo sul nostro territorio, non serve proprio a un accidente, visto che già le linee attuali sono sottoutilizzate tanto che potrebbero sostenere un traffico tre volte superiore. E ancor meno servirà quando i lavori saranno terminati Tuttavia bisogna andare avanti perché la rete di do ut des messa in piedi agisce ormai autonomamente a prescindere dall’utilità o meno.

Altro esempio di scuola è il Mose, riuscito vincitore all’interno di numerosi progetti messi in campo durante un’intero ventennio e i cui primi progetti, compreso un modello a scala reale apparve nel ’92. Oggi grazie a numerosi buchi di progetto riguardo  la corrosione elettrochimica dell’ambiente marino e all’uso di acciaio diverso da quello dei test e proveniente dall’Est europa, l’opera che dovrebbe essere terminata fra 4 anni, costituisce già un disastro senza precedenti nella storia del Paese: le parti vitali sono già corrose, molte barriere già non funzionano, la nave allestita per la manutenzione ha ceduto al primo tentativo di sollevare una delle barriere. Ma anche se alla fine funzionasse sarebbe egualmente un disastro, in primo luogo perché il lento innalzamento del livello del mare ( 3 mm l’anno in deciso aumento nell’ultimo decennio ) e il lento sprofondamento dei cassoni rischia di rendere inutili le barriere, ma soprattutto perché secondo gli ultimi studi se per miracolo funzionasse in condizioni di acqua alta sempre più frequente e importante per il cambiamento climatico non preso in considerazione in passato,  danneggerebbe l’ecosistema lagunare e l’economia marittima già nel giro di pochi decenni. Per cui dallo stesso Mose viene l’indicazione di alzare le paratie, solo con maree di 110 centimetri. il che significherebbe che comunque Venezia sarebbe regolarmente sommersa da notevolissime acque alte con danni alla fine incalcolabili. Tutto per la modica cifra di 10 miliardi e forse più alla fine dei lavori e una tassa che presumibilmente raggiungerà i 200 milioni l’anno per la manutenzione.

Al contrario progetti presentati in passato e giudicati irrealizzabili, nonostante fossero stati sperimentati con successo sull’isolotto di Poveglia già negli anni ’70, come il sollevamento del territorio veneziano, appaiono oggi molto più praticabili grazie allo sviluppo delle tecnologie messe a punto per stabilizzare le piattaforme petrolifere durante le estrazioni. Ma qual è l’atteggiamento di fronte a tutto questo? Potrebbe essere riassunto nelle parole di Georg Umgiesser, oceanografo del Consiglio Nazionale delle Ricerche, che ha sempre seguito in chiave critica le vicende del Mose: ” sono stati investiti troppi soldi e troppo tempo  per abbandonare il progetto ora, “ma una volta completato, a quel punto possiamo pensare ad altro”. Come dire non serve a nulla, è persino dannoso, ma andiamo avanti ben sapendo che dopo dovremo risolvere il problema per davvero. Certo se il Mose fosse stato realizzato negli anni ’90 forse adesso saremmo già nella fase avanzata di quel “dopo” assolutamente ineludibile e l’errore sarebbe molto meno grave anche perché una realizzazione rapida non avrebbe fatto levitare i costi in maniera stratosferica. Invece dobbiamo attendere ancora un lustro perché qualcuno si possa ancora rimpinzare.