C’è bisogno di dirlo? La sinistra ha perso nella regione spagnola dove pareva più radicata, ovvero l’Andalusia: ha perso il partito socialista da sempre ligio ai diktat di Bruxelles che ha ormai meno parentele con la sinistra di quante ne abbia il fumo con l’arrosto, ma ha perso anche Podemos caduto ormai da tempo nella melassa dell’europeismo a ogni costo e del cosmopolitismo neoliberista, illudendosi di poter dare contemporaneamente risposte ai massacri compiuti proprio in nome di questa nuova modernità reazionaria. Un partito che di fatto ha l’unico obiettivo di sostituirsi ai socialisti ripercorrendone le orme ed entrato perciò nel politicante, abbandonando la politica. E ha perduto Izquierda Unida che era scesa in campo con Podemos pensando di sfondare sotto lo slogan più Europa. E naturalmente hanno vinto le destre neo franchiste di rito non europeo, al contrario del Partido Popular che invece rappresenta un baluardo dell’austerità di Bruxelles. che sono le sole a dare l’impressione di avere un’offerta politica contro lo status quo. Che poi questa impressione sia reale o meno è un altro discorso: se chi dovrebbe offrire un panorama alternativo reale abidca al proprio compito, questo è ciò che succede perché la gente si afferra agli appigli che trova anche se sono taglienti. O anche se non è disposta a far questo si astiene in maniera massiccia come è accaduto appunto in Andalusia: ma regolarmente il segnale non viene colto, anzi viene esorcizzato e razionalizzato con banalità riguardanti la conduzione della campagna elettorale.
Adesso viene da ridere quando gli sconfitti, tra l’altro a sorpresa, perché i sondaggi che ormai sono un inganno istituzionalizzato, davano tutt’altri risultati – segno che anche al di là delle manipolazioni statistiche esiste un malcontento che cova sotto la cenere – lanciano l’allarme fascismo che essi stessi hanno contribuito a creare con il loro ritiro dagli spalti della protesta anti neoliberista e che comunque è già presente in abbondanza nel partito di Rajoy. Ma ormai è più di un decennio che assistiamo a questa dinamica senza tracce di resipiscenza che non sia effimero e non ricada quasi subito nei contemporanei sprofondi di atavismo ideologico, occasionalismo elettorale e riflessi condizionati che navigano a tre metri sopra il cielo con tutti i pizzini e i lucchetti attaccati. Però in Spagna il movimento è quasi accelerato, laddove nel resto dell’europa ha richiesto una quindicina d’anni, ma proprio per questo la clip politica iberica mostra in maniera estremamente sintetica e chiara come dal 2014, anno di fondazione di Podemos sulle ceneri degli Indignados, si sia passati rapidamente dai temi dell’uguaglianza sociale e dei diritti del lavoro, con specifico rifiuto dell’ideologia neoliberista espressa dalla Ue e dai governi ad essa subordinati, a posizioni globaliste e ambigue, finendo vittima di quell’egemonia culturale la cui denuncia era stata l’atto fondativo del movimento e rischiano di essere in linea con la pochezza delle analisi che giungono dall’informazione del padrone che si lamenta della fine del bipartitismo in Spagna, ossia l’unica cosa buona che emerge da questo appuntamento elettorale.
Come in una sorta di contrappasso Podemos era salito sul palcoscenico proprio con le elezioni Andaluse del 2015, nelle quali conquistò il 15% dell’elettorato diventando il terzo partito della regione e lanciandosi nell’arena nazionale. Appena 4 anni dopo e un momento di straordinario successo, è regredito al quarto posto per giunta in unione con Izquierda Unida, ancora più euro globalista se possibile, totalizzando una percentuale inferiore a quella del folgorante inizio. E’ la fine di una illusione che affonda nel Gualdalquivir delle stelle, lasciando colpevolmente spazio a movimenti come Vox che sono la risposta sbagliata a un mondo sbagliato, ma che in qualche modo sembrano una risposta e non affabulazioni attorno al teschio della giustizia sociale. Essere o non essere, prendere le armi o dormire, forse sognare, questo è il problema ormai.
Quando si parla di potere dell’élite transnazionale si rischia sempre di fornire un quadro troppo semplicistico della situazione.
Chiaramente la classe dirigente non è un blocco monolitico, vi sono divisioni e contrasti feroci al suo interno, che si ricompongono in parte quando si tratta di bloccare le azioni provenienti dalla base della piramide sociale.
Esistono resistenze a livello degli Stati nazionali più strutturati da parte delle burocrazie, penso alla Francia o alla Cina, o da parte del settore militare o di intelligence, come ad esempio in Russia.
Però le politiche neoliberiste attuate negli ultimi anni con drenaggio delle risorse verso l’alto hanno creato una situazione pericolosa ben descritta in questo articolo.
https://albertomicalizzi.com/2016/11/21/la-matrice-che-ci-imprigiona/
“La mobilitazione dei Gilets Jaune ha finora non solo passato i confini ma anche esteso in campo nazionale le adesioni come quelle degli studenti e degli abitanti delle banlieues.”
A me sti GJ sembrano tanto i grillini dei primi tempi, gli indignados confluiti in podemos, al limite quelli dei forconi… chi vivrà vedrà se si sarà trattato DELL’ENNESIMO FUOCO DI PAGLIA, architettato dalle classi dominanti in funzione di distrazione ( un po’ alla panem et circensens…dove in questo caso i circensens sarebbero proprio i GJ, e meno è i panem e più saltano fuori i circenses delle rivoluzioni arancioni……).
Si può leggere:
https://comedonchisciotte.org/zerbini-e-scrivani/
Vox ha vinto sfruttando il problema dell’immigrazione e con un programma decisamente di classe: urbanizzazione del territorio e abbassamento delle imposte.
Ma il progetto più generale portato avanti dalle élite occidentali è quello di preparare il terreno in previsione di un’implosione della globalizzazione sotto il segno della deflazione.
Se si dovesse tornare ai vecchi Stati nazionali con tanto di confini duri e politiche di conservatorismo paternalistico, i partiti e i movimenti pronti a soddisfare i bisogni dell’elite transnazionale sono già operativi.
l’altra volta mi era sembrato che tu parlassi di deflazione come arma in mano alle elites, ma ora forse nel senso di un fenomeno che può danneggiare o travolgere il mondialismo, o sarebbe una deflazione comunque voluta dalle elites ? Ad ogni modo in che modo ne intendi gli effetti ?
La deflazione è un’arma in mano alle elites che hanno ottenuto dai governi la possibilità di creare denaro tramite il sistema bancario sotto il loro controllo e sempre grazie ai governi hanno ottenuto la libertà di muovere questi capitali come una nuvola di elettroni sopra il pianeta e di farli atterrare nei luoghi più convenienti per la speculazione.
Non credo che le elites finanziarie possano ottenere più di quello che hanno; l’unico loro punto debole è che si tratta di un numero ridotto di persone, quindi devono gestire con attenzione il potere raggiunto dosando i periodi di semina, con tassi alti, e quelli di raccolta, in cui fanno mancare il denaro rastrellando i beni reali, senza provocare la reazione del famoso 99% e devono convogliare la rabbia e il dissenso all’interno di contenitori politici facili da neutralizzare.
I movimenti populisti che stanno nascendo come funghi sotto il controllo dell’elite, vedi Bannon o Trump, sono un caso da manuale: non solo raccolgono la protesta, ma creano una nuova contrapposizione in grado di distrarre l’attenzione dei sudditi.
Ma l’obiettivo ultimo delle elite penso rimanga sempre un mondo unificato con libertà assoluta di movimento di uomini, capitali e di merci, ultraliberista e chiaramente sotto il loro controllo tramite il potere militare e di intelligence della potenza dominante, alla gestione dei media e grazie alla possibilità di veder attribuito valore legale al denaro che stampano dal nulla.
Mi correggo:ho scritto periodi di semina con tassi alti. Chiaramente tassi bassi.
quando non si è contro la propria borghesia nazionale, non si è neanche contro quelle che ha sede a bruxelles, poichè si tratta della medesima classe che si mostra con facce diverse, il problema spagnolo è tutto quì Qualche informazione sul processo di crescita del movimento dei gilet gialli
Il movimento è iniziato come rifiuto dell’aumento del prezzo del carburante. Le prime recriminazioni facevano rilevare il divario tra la città (Parigi in primo luogo) e i territori interni, Mentre cioé la popolazione di Parigi ha a disposizione una rete di trasporti pubblici, gli abitanti dei piccoli centri e delle campagne, non hanno altra soluzione che muoversi in auto, anche perché le tratte interne dei servizi pubblici sono state in gran parte dismesse.
L’aumento, anche di una piccola percentuale, pesa sui bilanci della popolazione, che ha già subito le misure governative sulla diminuzione del salario reale. Il governo Macron, dicono i GJ, ha messo un minuto per abolire la tassa patrimoniale, e allo stesso tempo ad aumentare le trattenute sociali sul salario. La gente non accetta più questo regolare attacco alle proprie condizioni di vita. E ha deciso di passare alla controffensiva cominciando col bloccare le vie di comunicazione. Secondo rilevazioni oltre il 70 per cento della popolazione appoggia la mobilitazione dei GJ e nessuno si é lamentato per i disagi conseguenti al blocco.
Il movimento è sorto spontaneamente a partire da un appello su Facebook di un autista chiamando a dimostrare indossando appunto un gilet giallo, e si é esteso poi per mezzo del web a tutto il Paese. Attraverso una “déclaration” il movimento ha chiarito alcuni punti fermi della propria azione. Anzitutto il movimento è di tutti ma non è consentito a nessuno di parlare o prendere decisioni a nome del movimento. In questo senso sono stati rifiutati sia i partiti che i sindacati a prendere parte in quanto forze organizzate: aderenti a partiti e sindacati possono certamente aderire e partecipare a titolo individuale come cittadini.
Per quanto riguarda i sindacati la misura è rivolta principalmente verso le organizzazioni sindacali nazionali, mentre a livello locale molte organizzazioni sindacali hanno aderito al movimento. A questo proposito é utile ricordare la fine del Maggio ’68 sancito dagli Accordi di Grenelle tra i grandi sindacati, il padronato e il governo: per una manciata di miglioramenti salariali e normativi il movimento conobbe la sua fine. Certo, forse memori di questa esperienza storica, i GJ hanno dall’inizio messo le mani avanti. Non solo ma la “déclaration”stabilisce altresí che il movimento non ha rappresentanti abilitati a trattare col governo e quindi prendere decisioni valide per un accordo.
Il movimento è invece impegnato al momento a eleggere esponenti delle varie regioni che possano funzionare come punti di riferimento territoriali. Esponenti che funzioneranno come messaggeri nel caso di incontro col governo. La richiesta centrale del movimento è essere ricevuti dal presidente per discutere le misure sociali prese e da intraprendere. Questa richiesta é legittima anche in quanto già da anni i governi hanno dichiarato per iscritto che esso amministra non “in nome del popolo” ma “insieme al popolo”. Parole che sono rimaste chiaramente sulla carta.
Il movimento contesta le misure decise dal governo a favore dei ricchi a spese del popolo. Il quale non è stato mai consultato. La richiesta perciò è di essere ricevuti dal presidente per presentare le proprie richieste. (Questo argomento ricorda un po’ la rivendicazione del Terzo stato nel confronti del re, al tempo della Rivoluzione.) E’ stato posto in chiaro che, allorquando il presidente avrà espresso le sue posizioni in seguito a un probabile incontro, queste saranno esaminate e discusse da tutta la popolazione prima di prendere una decisione. Anche a questo scopo è in gestazione il progetto da parte dei GJ di organizzare delle Assemblee cittadine, che potranno certamente portare avanti piú organicamente la lotta.
La mobilitazione dei Gilets Jaune ha finora non solo passato i confini ma anche esteso in campo nazionale le adesioni come quelle degli studenti e degli abitanti delle banlieues. Tutti con le proprie rivendicazioni ma uniti nella ribellione contro il governo Macron.
L’articolo è di Nicolai Caiazza e circola in rete