forum_6330Oggi lascio la parola ad altri e precisamente a Gian Carlo Scotuzzi, giornalista alla Mondadori e licenziato 10 anni fa per aver pubblicato sul giornale dell’azienda di Segrate, la Smondra, una lettera ( con risposta)  contro le pubblicazioni spazzatura destinate a drogare le giovani generazioni e contro l’allontanamento dell’editoria da qualsiasi etica. In quello stesso anno Scotuzzi diffonde sul blog nel frattempo creato, un’ intervista registrata in provincia di Brescia domenica 7 settembre e che narra la storia di un camionista di 52 anni, chiamato Camillo,  che narra le sue tristi vicende nell’Europa della corsa all’Est e della moneta unica. Il 2008 è un anno – crocevia perché Berlusconi stravince le elezioni, e contemporaneamente esplode la crisi economica che da il via al declino dell’Europa fondata sulla moneta unica, ma questa intervista mostra benissimo la simbiosi tra Eu, mercato, finanza ed economia di predazione, sia pure dall’angolo visuale di un uomo qualunque, di uno di noi e toglie qualsiasi alibi a chi pur dichiarandosi contro faceva finta di non aver capito in quale direzione si andasse e tuttora recita imperterrito, questa parte alludendo a impossibili cambiamenti. Ma toglie anche credibilità a qualsiasi anti berlusconismo fondato non sull’uguaglianza e i diritti, ma sullo stampino europeista, perché a parte questioni di immagine, di bon ton o di dialetto capitalista erano in radice la medesima cosa. Per questo e anche per il ruolo che la Lega di allora svolgeva in questo senso è utile tornare su certe cose. Buona lettura.

“Ho 52 anni e ho sempre fatto il camionista. Ho cominciato a 20 anni, alla guida di un piccolo camion, distribuendo bevande nella mia zona, che è una valle del Norditalia dove la Dc l’ha sempre fatta da padrona. Poi è arrivato Bossi, che ha cominciato a prendere più voti di quanti ne avessero mai raccolti i culibianchi [i democristiani, ndr]. Ma con la Lega le cose, come sto per raccontare, invece di migliorare sono peggiorate.

A 23 anni ho cominciato a guidare un Tir per conto di un padroncino della città. Trasportavo tondino di ferro. Sempre sovraccarico di 100-150 quintali. Vuol dire che per fermare il camion ti servono decine e decine di metri supplementari: se ti trovi un’auto o un ciclista o un pedone a una distanza inferiore è inutile che freni. Il camion non si ferma e maciulli tutto quanto. Ad alcuni miei colleghi è successo. Ma nessuno mi ha mai controllato. Eppure sarebbe bastato scortarmi sino a una pesa pubblica e lì avrebbero scoperto che il padrone mi mandava in giro con un sovraccarico che era un’arma: un imprevisto e demolisci tutto, lamiere e corpi. Un giorno ho detto al padrone:
– Capo, ma c’è bisogno di sovraccaricare il camion in questa maniera? – Sono obbligato, perché per vincere l’appalto con la ferriera ho dovuto abbassare le tariffe e se rispetto i limiti di carico devo fare più viaggi e non ci sto dentro. Se non te la senti di guidare sovraccarico prendo un altro al tuo posto.

Per fare tutti i viaggi che il nostro padrone si era impegnato a fare dovevamo ridurre i tempi di carico e scarico. Così il carico non veniva ancorato al pianale. Un guaio, quando trasporti materiale che può scivolare. Un giorno un collega e amico che trasportava billette [laminato per profilati, ndr] ha dovuto frenare di colpo per evitare un trattore uscito da un campo. Andava come un matto, perché un altro fattore di rischio era la velocità: per rispettare la tabella di marcia e fare tutti i viaggi comandati sei obbligato a superare i limiti di legge. Quando il mio amico ha visto il trattore si è subito reso conto che non aveva alcuna possibilità di fermarsi in tempo, appunto perché era sovraccarico e andava troppo forte. Ma ha frenato lo stesso, spingendo tutto il freno, un po’ per riflesso condizionato e un po’ per la paura di ammazzare il poverocristo alla guida del trattore. Quello del trattore, quando ha visto nello specchietto il Tir avvicinarsi a velocità folle, ha sterzato in un campo, ribaltandosi senza gravi danni. Ma la frenata ha fatto scivolare la montagna di billette sulla cabina. Il mio amico è morto maciullato. La moglie lo ha riconosciuto da una scarpa. «Gliele avevo comprate l’altr’ieri al mercato», ha detto. Il resto di suo marito era brandelli e poltiglia, «Marta, meglio che non vai a vedere», gli ha detto un pompiere che la conosceva.

Quando i tondinari han trasferito le loro ferriere nei Paesi dell’Est sono rimasto senza lavoro qualche mese. Finché mi ha assunto un padrone della Valle che lavorava per conto di una grande azienda del Torinese. Era di fatto un reparto staccato, con circa 200 dipendenti. Ma mica tutti della stessa impresa, bensì frazionati in tante piccole aziendine con meno di 15 dipendenti, in modo che i 200 dipendenti, che pure lavoravano quasi gomito a gomito ma sulla busta paga avevano il timbro di 14 aziende diverse, non godessero dei diritti sindacali dello Statuto dei lavoratori, che vale appunto nelle imprese con oltre 15 dipendenti. Così il padrone era libero di licenziare chiunque in ogni momento anche senza motivo.

Eppure nessuno protestava, nessuno aveva da ridire, pensavano che, in una Valle di fame come la nostra, fosse già tanta grazia avere un padrone e un lavoro di merda perché sono sempre meglio di nessun padrone.
Io, che stavo sul Tir dal lunedì al venerdì e spesso anche il sabato e persino la domenica se c’erano consegne urgenti, ero considerato un privilegiato. Salivo in cabina alle sei di mattina e smontavo alle sei di sera, con un’ora di fermo per il pranzo, che poi si è ridotta a venti minuti perché l’intensità del traffico ti costringeva a recuperare. Sempre più spesso mi capitava di smontare dopo le otto di sera.

Un paio di anni fa il padrone mi chiama, mi fa sedere, mi mette sotto il naso una lettera con l’intestazione di camion giallo e rosso e mi fa:
– Camillo, conosci Willi Betz?
– E chi è?
– È un tedesco furbo, che ha capito tutto e si è preparato per tempo a entrare in Europa…
In breve il padrone mi spiega che questo crucco ha messo su in un Paese dell’Est un’impresa di trasporti con centinaia di camion che, grazie appunto all’Unione Europea che ha buttato giù le frontiere, possono trasportare merci ovunque senza problemi, niente burocrazie né dazi né perdite di tempo. E al volante di tutti questi camion il crucco ci ha messo autisti assunti all’Est, dove le paghe sono un terzo delle nostre.
– Insomma, Camillo – viene al dunque il mio padrone – tu capisci che se vendo il mio Tir e faccio trasportare le mie merci da Betz risparmio un sacco di soldi, ecco, guarda qua – e martella col dito la lettera di Betz sulla scrivania – hai visto che tariffe? Calcolando i tuoi contributi e le spese del camion, tu mi costi il 60% in più di un autista di Betz…
– Capo, non vorrà mica ridurmi la paga del 60%, no?
– Nooo! Per chi mi hai preso? Per uno schiavista? Mi contento di una riduzione del 40%.
Mi è andato il sangue alla testa. Avrei voluto mollargli un cazzotto, al bastardo! Ma mi sono controllato. Mia moglie ha perso il posto nel laboratorio di confezioni molti anni fa, ho ancora un figlio che studia e l’altro che guadagna poco e ogni mese mi chiede una mano… Così ho accettato.
v Sei mesi fa il padrone mi convoca di nuovo. Con lui c’è un tipo moro, con i capelli che sembrano unti di gel, vestito male.
– Camillo – mi fa il padrone – questo è Vilic… il nome sarebbe un po’ complicato ma chiamiamolo Vilic. Viene dalla Polonia e per un po’ ti darà una mano.
Mi preoccupo. Ogni volta che il padrone mi annuncia una novità si rivela una fregatura.
– Vilic – continua il padrone – farà con te qualche viaggio, in modo da imparare la strada. Poi prenderà il tuo posto, ma tu non devi preoccuparti, perché passerai su un nuovo camion a fare consegne altrove, anche all’estero. Sai, quelli di Torino si stanno trasferendo all’Est e io ho bisogno di qualcuno di fiducia, come te, per le consegne nella loro nuova fabbrica, e tu avrai il tuo buon tornaconto.
La prospettiva di fare viaggi internazionali e star fuori tutta la settimana mi spaventa un po’, ma penso al guadagno: ho amici autisti che fanno la spola tra il Milanese e la Polonia e si portano a casa uno stipendio che è il doppio del mio. Mi metto in viaggio con Vilic al fianco. Si è portato dietro una sacca, da cui viene odore di cibo. Ha gli stessi abiti di quando l’ho incontrato la prima volta nell’ufficio del padrone e puzza un po’. Parla poco, in un italiano stentato. A ogni deviazione gli segnalo un riferimento che lo aiuti a ricordare. Ecco, vedi quella grande insegna? Attento, qui devi stare sulla sinistra e girare…
Lui indica col dito le insegne e i nomi delle località che attraversiamo e prende nota a biro su un quaderno.
Ci fermiamo a un autogrill. Lui dice che si è portato da mangiare. Cava dalla borsa un sacchetto di carta con chiazze oleose e comincia a mangiare specie di polpette con uno sgradevole odore di aglio.
Quando vado alla toilette lo trovo che beve dal rubinetto.
Così per una settimana, lui sempre più sporco e puzzolente, sempre a sgranocchiare polpette. Un giorno gli ho offerto il pranzo, ma ha rifiutato.
Ho pensato non avesse soldi e quindi si sentisse a disagio per non poter ricambiare. Così l’indomani mi sono inventato che il padrone aveva offerto il pranzo a entrambi. Ha divorato tutto come un affamato. Con la birra si è lasciato andare per la prima volta a qualche confidenza. Mi ha detto di avere moglie e una figlia, che però l’hanno lasciato. Mi ha detto che la notte dorme in una specie di ripostiglio che gli ha procurato il padrone e che, appena prende la paga, si trasferisce in un bilocale che un bottegaio del paese gli ha promesso in cambio di un anticipo. Mi ha confidato il suo salario: meno della metà del mio e senza contributi perché il padrone lo ha convinto ad aprire una partita Iva, insomma a mettersi in proprio! Guardo questo poverocristo dal nome complicato che non riusciamo a pronunciare e mi fa una pena immensa: eppure, secondo le statistiche, questo pezzente è un imprenditore, è una ditta individuale!

Un sabato sera che parlo di queste porcate padronali con mia moglie, lei mi fa:
– Camillo, secondo me il tuo padrone non può farti tutto questo! Ti ricordi il Bossi cos’ha detto quel giorno a Ponte? [Ponte di Legno, in Valcamonica, dove Bossi va spesso in vacanza, ndr] Che con l’Europa abbiamo tutto da guadagnare. Perché non vai a parlare della tua situazione all’onorevole Magrelli [nome alterato, ndr]?
Così vado dall’onorevole Magrelli, che conosco da molti anni, ci diamo del tu.
– Caro Magrelli – gli dico al termine di una riunione nella sede della Lega in Valle – ti pare giusto che mi riducano la paga del 40% e che assumano un rumeno a fare l’autista con la partita Iva dunque con una paga da fame?
– Caro Camillo, noi leghisti non abbiamo paura della libera concorrenza, perché il libero mercato porterà benessere a tutti.
– Se la libertà di mercato è la libertà di ridurre le paghe di noi italiani al livello di quelle degli schiavi dell’Est, l’Unione Europea è una colossale fregatura per i lavoratori! Ma spiegami un po’, onorevole, Bossi predica l’autonomia della Padania e non è capace neppure di difendere l’autonomia dell’Italia?
A questo punto Magrelli è corso a salutare un altro e non sono più riuscito a parlargli. Ogni volta che mi avvicinavo a lui e lo fissavo per richiamarlo alla nostra conversazione, lui mi ignorava, finché se n’è andato.

La settimana scorsa il padrone mi chiama di nuovo. Tiene lo sguardo basso e i lineamenti tirati. Mi invita con un cenno della mano a sedermi senza neanche guardarmi. Tira in lungo spostando fogli e leggendoli, come se io non ci fossi. Poi mi fa:
– Purtroppo le cose vanno male, dobbiamo tagliare i costi e tu sei un onere che non possiamo più permetterci… Da domani Vilic prende il tuo posto, ormai la strada l’ha imparata…
– Dunque io comincio a fare i viaggi all’estero su un altro camion?
– No, no… appunto, qui sta il problema, i torinesi han detto che alle consegne oltre frontiera ci pensano loro.
Non mi sono mai sentito tanto umiliato. Messo alla porta perché uno schiavo importato dalla Polonia costa molto meno di me, che pure avevo già rinunciato al 40% del salario.”

Abbiamo un quadro molto chiaro della situazione com’era allora e com’è oggi. Abbiamo la quasi ventennale preparazione alla distruzione dei diritti del lavoro dapprima attutata con forzature delle regole quasi mai sanzionate e infine divenute legge con il job act senza che vi sia stata una significativa resistenza perché le uniche grandi manifestazioni della cosiddetta sinistra sono state contro le cene eleganti del Cavaliere, quasi che la maleducazione e la pacchianeria fossero più importanti delle politica. Abbiamo l’incongrua e repentina apertura all’est sia per compiacere la Nato e dunque gli Usa, ma soprattutto sfruttata per far crollare i salari e non per migliorare le condizioni di vita degli uni e degli altri.  Abbiamo l’euro come strumento di ricatto e di prigionia dentro il panopticon neoliberista brusselese. Quello che non c’era allora era solo il ricatto sordido e palese che si è concretizzato contro la Grecia e adesso contro di noi.