pagheAnna Lombroso per il Simplicissimus

Vien proprio da dire che il sonno della ragione genera mostre. In un brillante libriccino Contro le mostre Montanari denuncia che di esposizioni blockbuster se ne organizzano almeno diecimila all’anno, prodotte a raffica per ripescare i minori e ridurre i maggiori a instant celebrity di pronto consumo, indotto magari da un film di successo, se pensiamo a Vermeer o a Da Vinci, icona irrinunciabile tanto da aver persuaso un sindaco della possibilità di lasciare la sua impronta indelebile  regalando ai posteri un suo affresco, rivelato non per caso dietro alla sua poltrona. Per non dire dell’idea peregrina di concentrare geni italiani, bronzi compresi, in un padiglione fieristico dell’Expo, o di trasferire oltreoceano una guglia del Duomo in qualità di condimento spirituale per i salami e il cacio dello scellerato Farinetti.

Se è lunga la lista delle vittime celebri di incaute movimentazioni, di sfregi, di rotture e danni (così, tanto per dirne uno, durante l’indispensabile evento al Colosseo dal titolo Il rito segreto, una tromba d’aria ha fatto cadere la Fanciulla di Anzio. Ah, e qualche anno dopo, sempre nella stessa location, è stata irreparabilmente compromessa la statua della Hestia Giustiniani) , è ancora più lunga quella delle offese al buon gusto e alla memoria storica grazie ad eventi di cassetta brutti, insensati, occasionali, raccogliticci, trasandati e imposti come fenomeni inderogabili da una cerchia  di  società, spesso multinazionali, che producono l’evento dalla culla alla tomba, gadget, cataloghi, percorsi virtuali compresi,  di curatori addetti alla banalizzazione e commercializzazioni, di assessori e direttori di gallerie, degli stessi musei ormai affidati a esperti di marketing più che a studiosi,  e offerti a un pubblico bulimico che vuole ingoiare i brand  replicati a ripetizione senza che il succedersi di personali aggiunga nulla a Picasso (ai sette musei dedicati a lui possiamo aggiungere nel solo 2012 ben 69 mostre), Dalì, Basquiat, Warhol, in una  perversa confusione tra cultura e svago.

I prodotti che si vendono meglio, più redditizi e dunque benedetti dalla fabbrica delle mostre sono però i “maledetti”. Così chi capitasse a Genova può cogliere la straordinaria occasione di visitare Paganini rockstar, ebbene si,  spericolatamente appaiato all’incandescente Hendrix nella temeraria comunicazione dell’evento che unisce, cito, i manoscritti originali di Paganini  ai costumi di scena di Hendrix in un impianto multimediale di forte impatto, perché, si legge nella presentazionePaganini e rockstar sono due parole ardite da accostare, sembrano appartenere a due universi molto distanti tra loro, due storie lontane – nel tempo e nello spazio – che difficilmente possono intrecciarsi. Eppure Niccolò Paganini, avvolto tutt’oggi nelle nubi fumose di leggende, luoghi comuni e misteri, è un musicista rock, laddove rock vuol dire rivoluzione”.

In attesa di una bella ghigliottina psichedelica e anche quella multimediale, da far vergognare i gilet di Parigi, per fare giustizia di queste baggianate, si apprende che l’iniziativa riscuote un grande successo di pubblico in una città che ha ancora quella ferita aperta. Il che fa sospettare che gente che sopporta i comandi di un alcolista o farmacodipendente a piacere, che ha tollerato di farsi espropriare perfino dei suoi guadagni differiti sottoforma di pensione, che non si è ribellata quando le sue tasse non sono state investite in assistenza, istruzione, tutela del territorio, ma spese per il salvataggio di banche criminali e di manager malfattori, o, peggio, in aerei da bombardamento scamuffi, che ha fatta sua la convinzione che è doveroso subire i ricatti e le intimidazioni della “necessità”, rinunciando volontariamente a diritti e garanzie, pensa di riscattarsi con la rivoluzione del rock di Paganini o meglio di Hendrix, con la ribellione di Bukowski sotto forma di citazione sul profilo Fb, con la trasgressione di Caravaggio, altro dannato di successo protagonista di manifestazioni, esposizioni, sceneggiati, pochissimo frequentato in chiese e città fuorimano, e ancora meno conosciuto di prima mano grazie alla cancellazione della storia dell’arte negli istituti superiori.

Sarà che il bisogno di evasione e di distrazione, richiede che la cultura diventi intrattenimento, ingeneri,  con luci, suoni, colori, “esperienze sensoriali”, trucchi, messinscene, un generale stordimento in modo che l’ubriacatura assolva dalle responsabilità e deleghi a un pantheon  di tormentati insubordinati, refrattari a regole e leggi, l’affrancamento e la redenzione dall’ubbidienza.  E d’altra parte abitiamo nella società dello spettacolo e una volta assopiti l’ardore e l’ardire del cambiamento, e cancellata ogni possibilità di agire in un tessuto sociale del tutto prono ai comandi e ai doveri del profitto,  la critica si adatta alla moda e ai messaggi  dei nuovi saltimbanchi della cultura e dell’arte al servizio dei potentati economici e finanziari e dei sacerdoti della teocrazia del mercato. Non occorre scomodare i situazionisti in odor di rinnovata attualità, e Debord,  che si definiva “dottore in niente”, come tanti oggi, arruolatosi nel partito del diavolo, per capire la centralità della rappresentazione nella società contemporanea, per comprendere che  l’alienazione, lo sfruttamento, la mercificazione, il consumismo non nascono più nell’alveo dell’economia industriale, ma nel regno liquido e cromatico dello spettacolo, della sovrastruttura  dove l’immagine e l’immaginazione, il look e il video, finiscono per sostituire la sostanza dei rapporti di produzione ma anche delle relazioni sociali.  E dove la roulette finanziaria immateriale sostituisce le produzioni, il precariato prende il posto del lavoro, la critica e l’opposizione si convertono in flashmob, in file per omaggiare una infrazione fatta di bevute, di violazioni impasticcate, di sovversioni e licenze consumate sulla tela, nei casini e nelle bettole malfamate. In mancanza della collera e della dignità che fanno riconquistare la libertà ceduta.