Torino Sit in Si Tav piazza Castello 3 nov 2018 11-2Una delle più note e accreditate definizioni storiografiche dei fascismi del secolo scorso è quello di movimenti reazionari, destinati a mantenere il potere delle tradizionali classi di comando messo in pericolo dall’ascesa dei movimenti popolari e dalla lotta di classe, cercando al contempo di evitare le conseguenze dell’arretramento e del congelamento sociale sulle strutture, l’industria e il livello tecnico di un Paese. In questo senso una delle caratteristiche tipiche dei fascismi, sia pure nelle differenze determinate dalle culture locali, è il modernismo gestito in maniera propagandistica e compensativa rispetto ai diritti e alle speranze sottratte. Sono stati tempi di grandi opere che forse ai ceti popolari servivano molto poco, ma che potevano essere piantate come pietre miliari del progresso e segnalibro dell’immaginario: le autostrade in Germania o l’elettrificazione delle ferrovie in Italia, la bonifica dell’Agro Pontino o delle paludi del Luneburgo, i traguardi tecnologici in certi settori di punta erano il prezzo della libertà e di una incombente involuzione di cui la guerra mondiale è stato lo specchio in molte e diverse forme.

Si trattava insomma di un modernismo costruito per evitare la modernità, una patologia di cui possiamo vedere i riflessi anche negli esiti terminali del neoliberismo e che in Italia prendono forme apparentemente innocue, ma che sono chiarissimi precursori di un regime. Il fatto stesso che le piccole manifestazioni di Si Tav con i loro cartelli simulanti i colori e la formattazione piddina, siano stati paragonati dall’informazione mainstream alla marcia dei 40 mila di Torino del 1980, la dice lunga sulle intenzioni e sul senso di questi cortei che probabilmente sono state organizzati dai potentati interessati al lucro alla grande opera inutile, esattamente come quattro decenni fa la Fiat assoldò molte comparse perché recitassero la parte di impiegati del gruppo indignati per gli scioperi. Fu infatti quella manifestazione che segnò la fine sostanziale delle rivendicazioni operaie e la normalizzazione sindacale, peraltro già nell’aria e insomma è stato l’incipit di ciò che viviamo nel presente, ancorché la Fiat non esista più se non come marchio. Che poi questa “raccolta” di manifestanti in gran parte di destra melon salviniana attorno a un’opera enormemente costosa, a cui la Francia è bellamente disinteressata e che ormai è stata riconosciuta come inutile dagli stessi tecnici, è ancor peggio, rivelando l’esistenza di un’opinione qualunquista, analfabeta quanto a conoscenze, liberamente ingaggiabile sul mercato e assolutamente disposta alla fondazione di un regime.

Qualcuno si è mostrato scandalizzato del fatto che il Pd abbia appoggiato queste manifestazioni e ha parlato di un cupio dissolvi del partito, come se la sua stessa esistenza non sia stata la dimostrazione del cupio dissolvi della sinistra in questo Paese. Ma in realtà c’è poco da meravigliarsi rischiando di cadere dal pero: le grandi opere concepite non in relazione alla loro utilità o efficienza o correttezza, ma al giro di di denaro e di potere che potevano generare, sono state la caratteristica peculiare dell’Italia post mani pulite e costituiscono il correlato oggettivo delle privatizzazioni e della successiva deindustrializzazione del Paese. Del resto il Mose di Venezia che doveva essere la salvezza della città lagunare e che invece si è rivelato ciò che i suoi critici avevano detto fin dall’inizio, ovvero un gigantesco spreco di denaro e una sentina di corruzione a fronte di un’opera già fatiscente prima di essere finita, è stata un’impresa che si è snodata lungo la faglia di sprofondamento della sinistra a cominciare da Cacciari per finire al Pd. Così viene come il cacio sui maccheroni il discorso di Renzi per il quale la sfida non è più fra destra e sinistra, ma tra innovazione e conservazione, comprendendo in quest’ultima diritti del lavoro e Costituzione. Ecco dunque ggiovani e  damazze torinesi, nipoti dei quarantamila, attribuire, come del resto fa La Stampa, un’aura di modernità a una ferrovia del tutto superflua, che ammazza i bilanci dello Stato e distrugge l’ambiente. Chissà, magari la speranza segreta è che tutto questo attivismo costruttivo attorno al nulla possa sostituire la Fiat, i suoi stipendi, le sue prebende, le posizioni sociali conquistate. In fondo anche le signore bene  devono sostituire le tende e rifoderare i divani e i loro rampolli essere presi nel giro vorticoso delle consulenze e dei master che non li salveranno dalla nullità.

La democrazia viene man mano sostituita dal modernismo di cui sarebbero espressione la vergogna delle grandi opere e dei sedicenti grandi expo, una vera e propria prova d’orchestra per il fascismo morbido del XXI° secolo.