801ce69d-47cd-4eb0-a5c3-7028671946c3-originalChi ha un certo numero di anni ricorda certamente le scatole e i cartoni con il marchio Pernigotti che facevano la loro comparsa a Natale, si infilavano nelle calze della Befana o comparivano ai compleanni con le carte argentate e multicolori.  Ma è storia finita, lo stabilimento di Novi Ligure chiude e tutta la produzione passa in Turchia, come del resto è accaduto a tanta parte della manifattura italiana trasferitasi altrove per ragioni che quasi mai hanno a che vedere con vere e proprie difficoltà aziendali: la gran parte delle volte le fughe sono dovute alla volontà di moltiplicare i profitti abbattendo i costi del lavoro o all’incapacità delle seconde e terze generazioni che non sapendo come cavarsela o non avendo né la testa, né il coraggio per farlo, vendono a gruppi globalizzati che non hanno alcun radicamento e  producono per un mercato omologato e indifferenziato: hanno cioè interesse solo alle suggestioni indotte del marchio senza alcuna reale sostanza.

Anche in questo caso specifico la crisi c’entra poco perché le perdite accumulate dalla Pernigotti, già comprata nel ’95 dall’ Averna, successivamente acquisita a sua volta dalla  Campari che sta continuamente svendendo attività, cominciano magicamente cinque anni fa proprio nel momento in cui il marchio viene venduto alla turca Toksöz e cade quindi ogni interesse verso un serio piano industriale e occupazionale. Un gioco al massacro a cui si sono prestati anche i sindacati che proponevano piani di cassa integrazione e prepensionamenti, non capendo o forse facendo finta di non capire che si cercava solo di trascinare le cose verso un epilogo di fuga già deciso che diventava più facile proprio grazie all’atarassia di qualsiasi iniziativa. E di certo in un Paese che ha acquisito come sport nazionale quello di farsi soffiare le aziende come è accaduto per il gruppo Fiat, che è diventato uno dei baluardi ideologici della globalizzazione punitiva, che fa bondage su stesso, non ci si possono aspettare né interessamenti concreti riguardo a queste situazioni, né il varo di legislazioni utili  a rendere quanto meno difficoltose le fughe aziendali.

Si parla spesso e purtroppo a vanvera della responsabilità sociale delle aziende senza però che il concetto enunciato a parole trovi un qualche riscontro nella realtà. Ciò che colpisce in tutto questo non è solo il dramma di chi perde il lavoro, l’incertezza del futuro, la protervia del profitto, è ma anche  l’ircocervo culturale che ci attanaglia: da una parte la cultura cattolica ha prodotto un diritto di famiglia ossessivo e una conseguente giurisprudenza in cui di fatto c’è una sostanziale e a volte balzana indisponibilità del patrimonio privato al di fuori del nucleo familiare , dall’altro però, quando si tratta delle vite degli altri, di questioni che interessano la collettività, la proprietà diventa assoluta e indiscutibile permettendo ogni genere di operazioni. Se esistesse una “legittima” anche per le aziende, una sorta di parziale cessione, di risarcimento in caso di vendita fuori del Paese o di delocalizzazione, compensato da forme di aiuto pubblico condizionato all’entrata nelle gestione, le cose forse andrebbero diversamente o comunque in molti casi sarebbe possibile mantenere in Italia il cuore della produzione e il senso stesso dei marchi, senza la continua emorragia.

Ma certo devo sembrare  un reperto di chissà quale sospetto e muffoso passato perché mi ostino a pensare all’Italia, concetto desueto che evoca l’imbarazzante esistenza di un Paese, di una cultura e di una lingua, di cittadini non ancora trasformati in apolidi virtuali da sacrificare come le greggi quando è Pasqua, oppure il nefando populismo nemico di salottieri senza vergogna e persino la temibile sovranità: tutte cose rigettate sia dalle destre neoliberiste del pensiero unico, perbenista e conformista, sia dal centro neuro europeista  che dalle sinistre radicali del pensiero confuso, ormai divorziate dalle classi popolari e in navigazione su una barchetta senza più futuro che ormai sembra piuttosto un salvagente. E tutti appassionatamente dediti allo spaccio di cioccolatini avvelenati.