ref Anna Lombroso per il Simplicissimus

Sono ben magre soddisfazioni quelle che si prendono i pochi che vivono una condizione sospesa tra i due litiganti, che si sottraggono all’arruolamento forzato nelle file dei contendenti e che ogni volta che scrivono o parlano sono invitati perentoriamente ad esibire il certificato di buona condotta, il curriculum, il diploma di laurea, lo stato civile e la dichiarazione dei redditi. Documentazione peraltro che, auspicano molti divini schizzinosi, dovrebbe essere esibita  al seggio elettorale per favorire una corretta selezione del pubblico dei votanti.

Così oggi ci consoliamo con l’ajetto per il non–risultato del referendum romano sulla privatizzazione dell’Atac assistendo alla livorosa  reprimenda dei fan del Si, che oltre a sfoderare il solito repertorio di lagnanze per brogli e truffe, se la prendono prima di tutto coi cittadini reprobi, ai quali avevano proposto una scelta salvìfica che li avrebbe risparmiati da attese, bus affollati, tariffe indecorose quanto la qualità dei mezzi, in virtù della liberalizzazione mettendo a gara la gestione del servizio ed affidandolo al miglior concorrente. E poi, ovviamente, con la Giunta, grazie alla benevola rimozione dei vent’anni precedenti, per essere stata “cedevole” arrendendosi al malaffare che circola, è il caso di dirlo, intorno all’azienda dei trasporti,  dall’opacità degli appalti, all’inefficienza, dal traffico, è in caso di dirlo, di consenso, al clientelismo e familismo, ma anche  per la mancanza di una comunicazione di servizio istituzionale.

Una informazione, francamente, l’avrei voluto anche io a proposito di quanto è costato ai contribuenti questo capriccio. Non lo sappiamo, ma saremmo stati disposti a spendere di più se a votare fosse stata tutta Italia,  chiamata a decidere su una scelta cruciale, tra il mantenere gestione e controllo pubblico sui servizi o consegnarli ai provati, proprio come è successo con il referendum sull’acqua. Non c’è da credere alle rimostranze perché si sarebbe impedito l’accesso alla conoscenza, parola  incompatibile con le loro convinzioni, per  chi ha ridotto la scuola a anticamera del precariato: meglio restare sul generico di uno slogan propiziatore del rimedio tramite gli untori, meglio non entrare nel merito, che costa lo sforzo di dire la verità sui costi e i benefici, sulle esperienze maturate, sui casi di insuccesso interni ed esteri.

I severi censori dell’ennesima vittoria del bieco populismo e del sovranismo piccolo-borghese, noti per appartenere a cerchie che hanno la fortuna di non salire mai su un bus, sulla metro, sui tram salvo nei film con Fabrizi controllore, men che mai sui mezzi di collegamento con le squallide periferie già nelle mani dei privati, ecologisti da Suv, che motivano la loro ripugnanza per il trasporto plebeo con il malfunzionamento, la ressa, i ritardi, che affliggono come è naturale e giusto, ceti inferiori che non hanno saluto meritare di stare a Via dei Coronari,  mentre gli tocca mescolarsi sul tram a moleste presenze inaccettabili se non in livrea e berretto di carta da muratore, si dolgono dell’indole romana alla ignavia, dell’istinto proverbiale alla indolenza, della vocazione alla paraculaggine  e al menefreghismo, che in questo caso sconfina nell’autolesionismo, conseguenza inevitabile per essersi sottratti alla loro pedagogia.

Ed è tutto uno sciorinare il  repertorio della politologia sotto vuoto un tanto al chilo sull’astensionismo che in questo caso è la cifra del disincanto democratico, mentre se vincono loro è un positivo segnale della maturità dell’elettorato che finalmente ci allinea con le repubbliche più mature.

Non dovrebbero comunque lamentarsi di questo: la de-politicizzazione della società e la neutralizzazione della democrazia rappresentativa  è il loro più poderoso  successo. E’ stata la loro ideologia che ha talmente  deteriorato le relazioni tra i cittadini e lo Stato e le istituzioni parlamentare e i ruoli intermedi, partiti e sindacati ricattati e fidelizzati,   da alimentare diffidenza, sospetto e risentimento consigliando l’affidamento a l’unico potere regolatore, il mercato. Sono loro che rivelando a orologeria gli arcana imperii, le miserie e i vizi della politica, la sua distanza remota e crudele dalle nostre esistenze, suggeriscono quanto sarebbe migliore un governo invisibile, manovrato in stanze asettiche di banche, studi legali, accademie, che agirebbe per il nostro bene, mentre noi formichine ci occupiamo dei nostri meschini problemi personali.

Sono loro che hanno ridotto l’esercizio  dell’opposizione a cerimonie di facciata inorridite per le mancanze di bon ton più che di lavoro, sdegnate per l’ignoranza dei congiuntivi più che per la manipolazione della realtà, razionalmente impegnati sul fronte di una immigrazione controllata quanto si sono astratti in occasione della correità in guerre che l’hanno provocata. Che condannano il riarmo in pigiama ma non quello degli stati criminali ben contenti di additare al pubblico ludibrio l’uomo nero che segrega emargina  e reprime, dopo avere applaudito che gli ha spianato la strada, che vuole la tav per mandare i rampolli a fare l’Erasums comodamente seduti in Executive mentre scorre il panorama delle  rovine che hanno provocato.

Certo, personalmente avrei preferito un sonoro No, non fosse altro che per la nostalgia che si prova per questa parola caduta in desuetudine per ragioni  di realpolitik, per paura di sanzioni e penali, per timore di dispiacere alla grande tirannia mondiale, per conquistarsi consensi padronali. Avrei preferito che ieri Roma fosse la capitale del paese dove il No suona, quando occorre.