elemosinaAnna Lombroso per il Simplicissimus

Ho sempre nutrito forti sospetti sul reddito di cittadinanza, elargito come una bracioletta buttata ai cani affamati, e che è sempre piaciuto invece  alle marie antoniette, che l’assistenzialismo lo approvano se è compassionevole con gli Agnelli, i Riva, i De Benedetti, i Benetton, e che, anche fuori dai nostri angusti confini, lo hanno sostenuto in qualità, dicono loro,  di motore dei consumi, propizio invece all’incremento dei profitti dell’ 1%  della popolazione, alla caduta dei salari e la loro precarizzazione

E d’altra parte non può essere che così trattandosi di una misura che mentre dovrebbe far parte del quadro ideale della giustizia sociale   agisce separata invece se non addirittura in contraddizione con il   lavoro e le sue dinamiche, riassorbendo tra l’altro altri stimoli precedenti (come il reddito di inclusione, alcune indennità speciali ed esenzioni) e destinata com’è alla mera sussistenza.

Figuriamoci se non sono ancora più sospettosa se l’obolo poco più progressivo rispetto alle gratifiche renziane e sulla falsariga delle mancette ai ragazzi sotto forma di cultura da mettere in mezzo alle due fette di pane, si immagina condizionato al rispetto di alcuni dogmi  necessariamente imposti  e fini pedagogici a un popolo capriccioso (l’ha detto anche lo sciupafemmine greco), corrotto (l’ha detto anche Juncker), indolente (l’ha detto anche la Merkel), bamboccione (l’ha detto anche la Fornero)  perché adegui i suoi consumi e pure i suoi desideri a una etica pubblica se non equa e solidale, almeno sobria, misurata e pure autarchica ( indirizzata all’acquisto di produzioni Made in Italy?), simbolica della vittoria dei neo rigoristi sugli spendaccioni.

Tanto tempo fa una persona che ho molto amato mi ha insegnato che se un amico mostra di aver bisogno di un aiuto economico glielo devi dare senza esigere che ti dica a cosa gli serve. Anche se quel prestito venisse investito in una spesa apparentemente futile. Perché se la morale pubblica  permette  che a qualcuno manchi il “suo” necessario, non possiamo pretendere di sostituirla con una morale privata e individuale che alberga nella nostra troppo elastica coscienza e che si fonda su un catalogo arbitrario di morigerate priorità  e di punizione di voglie impure.   ‘virtù deboli’ come il silenzio, la pazienza, la perseveranza, la frugalità, siano quelle di cui abbiamo bisogno per un agire anche socialmente virtuoso?

Il fatto è che troppo è cambiato e di troppe cose siamo stati espropriati per farci guidare dalla legge morale dentro e fuori di noi sotto quel  solito cielo sempre meno stellato e sempre più frequentato da missili, caccia e satelliti che spiano e controllano le nostre vite, i nostri desideri e le nostre spese. E sempre di più non solo ci viene negato l’accesso e perfino il permesso di reclamare  i bisogni alienanti, per dirla con Agnes Heller: l’accesso e  il possesso di beni, soldi e potere, ma pure quelli radicali che non dovremmo più ascoltare e tantomeno appagare e che  riguardano l’introspezione, l’amicizia, l’amore e il piacere secondo una molteplicità di inclinazioni, le vocazioni, la convivialità e il gioco, perfino la libertà di morire con dignità. E sempre di più un agire socialmente virtuoso, un tempo rappresentato come esercizio di pazienza, riservatezza, perseveranza, frugalità, ora proposto sotto forma di tenaci arrivismi,  urlacci da comizianti, tracotanti sfrontatezze deve perseguire finalità di profitto e rendita in modo da mettere in moto la macchina dell’economia, compresa quella di guerra e successiva auspicabile ricostruzione,  e per far sì che la solita sempre più avara manina delle provvidenza sparga un po’ della sua polverina d’oro sui miseri, a patto che mostrino gratitudine e ossequio.

La storia ci ha insegnato che c’è poca differenza tra totalitarismi secolari e religiosi. Potremmo aggiungere anche quello che oggi occupa il mondo: non ostacolato, che impiega una violenza ferina ma organizzata, nel quale perfino il linguaggio è assoggettato al potere e stravolge e rovescia la verità, cancellando ogni distinzione tra vero e falso, tanto che è autorizzato a muovere guerre umanitarie, la cui potestà si esprime nell’autoritarismo, nel controllo sui tempi e i processi di lavoro, nella imposizione di modelli di consumo e soprattutto di lecite aspirazioni in modo da influenzare comportamenti attitudini e scelte, nell’alimentazione della paura, nutrita con il sospetto e il risentimento, nell’esercizio come sistema di governo del ricatto e dell’intimidazione per esaltare i benefici della rinuncia, del conformismo e dell’accettazione come  abiure inevitabili alla dignità e all’autodeterminazione in nome della  incontrovertibile necessità, se al posto degli Stati e della politica è subentrata la supremazia indiscussa delle corporation, delle multinazionali, di quella cupola  che sconfina esplicitamente nelle geografie del crimine, nel contesto di un sistema che coinvolge la “totalità” delle relazioni sociali legandole alle dinamiche del capitale e del mercato, e che concede ai molti sempre più ridotte  quote della ricchezza sociale al solo scopo di garantirsi la sopravvivenza, facendo interiorizzare i suoi schemi psicologici e comportamentali di dominio.

E’  questa la banalità del neo-male: la rassegnazione in virtù della soddisfazione di bisogni  “inoffensivi”, l’affermarsi di false libertà e falso benessere in un regime di alienazione ormai accolto e giustificato come normale, l’assuefazione e introiezione di messaggi che spacciano per libertà la concessione discrezionale di licenze,   quando  ai vecchi tabù ne sono stati sostituiti di nuovi. È questa la cattiva democrazia, un percorso aberrante disegnato nella mappa del “progresso” in modo l’uomo non sia né in grado di intuire i segni della propria illibertà, né di immaginare il percorso verso una libertà futura, da conquistare concretamente e  in cui l’unico diritto/dovere  elargito a ciascuno è unicamente quello di produrre e consumare, felicemente  esonerato dalle questioni morali, dalle decisioni finalmente delegate,  dalla solidarietà, spodestato da qualsiasi   riserva critica a cui attingere per resistere allo status quo e che quindi non può e non deve né pensare né, di conseguenza, realizzare le alternative; un individuo, insomma, che non vive ma si lascia vivere.

In questa realtà artificiale fatta di franchigie, grazie e assegnazioni arbitrarie che hanno messo in scena si realizza quella che qualcuno  ha chiamato  “caduta nella libertà, ovvero nel nulla”.  E pur essendo così in basso, senza il paracadute della ragione e dell’utopia ci facciamo un gran male.