images (1)Tra antinomie e contraddizioni ci dovremmo davvero aspettare che Massimo Cacciari compia l’ultima, suprema apertura che gli manca: quella ai capelli bianchi. Nel suo personale labirinto negli ultimi giorni si è scagliato contro la “populocrazia”, un prodotto di quelli che potrebbero far bella mostra di sé sugli scaffali di Eataly e che in effetti viene fuori contemporaneamente dalle scuole di Repubblica e del San Raffaele ovvero del primo e del secondo stato per ingannare il terzo e fottere il quarto. Ora per chi non lo sapesse populocrazia non è altro che l’indefinibile e indefinito populismo che va al governo. Insomma uno strato di non senso su un altro, esattamente come una chioma da torero andaluso a 74 anni.

Qui non si tratta di colpire a tradimento un vezzo, una debolezza, ma di considerare come un artefatto o un infingimento possano svelare, per metafora e per indizio esistenziale, molto di più di quanto i banali confini lascino sospettare, anzi possano essere uno spioncino su una realtà di cui Cacciari è un esponente di rilievo, ma che riguarda buon parte dell’intelligentia italiana, formata da surfisti che o riescono a stare sulla cresta dell’onda o sprofondano non riuscendo ad acquisire la dimensione del bagnante. Dunque molto dipende dalle condizioni del mare, dalla direzione delle onde, dal vento che tira tra i cavalloni dell’accademia, dell’editoria o della comunicazione in genere. Oggi tutti questi campi sono unificati, sono sotto il caporalato del pensiero unico, ma un tempo erano una scacchiera complessa sul quale giocare la partita.

In ogni momento della sua vita Cacciari ha aperto a qualcosa: dall’operaismo originario e probabilmente non privo di qualche venatura snob, al Pci come responsabile della commissione industria con un bel giro di 180 gradi;, poi dal Pci a Prodi ottenendo la sindacatura di Venezia dove aprì al Mose e alla creazione di un centro di potere che governa la città grazie ai miliardi per una grande opera che è già archeologia industriale prima ancora di essere finita; poi ha aperto alla Lega;, poi all’Udeur di Mastella e alla Margherita per ritornare sindaco della città a dispetto di Casson, ottenendo lo straordinario risultato di regalare alla Margherita 26 seggi con il 13% dei voti e solo 6 seggi ai Ds con il 21%  dei voti. In seguito ha aperto alla questione settentrionale in termini sempre abbastanza vaghi e altalenati, ma sempre vicino o introno alla Lega, tanto per esserci per battere un colpo e adesso dopo aver detto che l’Europa è un disastro che andrebbe smontato ha aperto all’Europa sostenendo che il Pd dovrebbe sciogliersi per divenire  Nuova Europa. Da bambino  non deve aver mai giocato col meccano altrimenti saprebbe che per rimontare qualcosa bisogna prima smontarla. Piccoli particolari di cui uno che addossa alla tecnica ogni responsabilità non si preoccupa di certo.

Tutto questo non  deve affatto stupire perché all’originaria militanza politica operaista e marxista ne ha condotta una accademica del tutto divergente con una forte predilezione per l’heideggerismo e il nietzscheanesimo, senza alcuno spunto davvero originale girando attorno al sempiterno tema della tecnica e del fallimento della razionalità, trattato col solito linguaggio ierofantico e allusivo che permette di aprire senza chiudere nulla. E infatti alla fine è diventato rettore dell’università del San Raffaele, voluta da don Verzè riconciliandosi con Dio a cui ha ovviamente aperto e sul quale organizza seminari e lezioni volti alla sua ricerca. Parallelamente scende in campo impegnandosi nella battaglia delle oligarchie contro la populocrazia,  probabilmente è l’unica che sente davvero sua  da elitario di elezione, di classe, di istinto.

Non si può certo dire che sia stato un cattivo maestro come Toni Negri da cui si è fatto inizialmente ispirare, al tempo di Marghera, semplicemente è stato un supplente per tutte stagioni. Ma certo guardando la sua folta capigliatura così nera immagino che si si dica sempre: io si che valgo.