1493035583061_1493035592Il cosiddetto crollo della lira turca è il frutto della confusione nella quale è entrato il mondo globalista, ma al tempo stesso rende del tutto evidente che esso funziona proprio perché non è realmente globale, ma padronale. In questo caso il padrone di Washington ci ha lasciato lo zampino, avvisando tramite i vasi comunicanti delle borse anche tutti  gli altri o meglio le colonie europee e dell’america latina: chi non si adegua sarà punito. Trump infatti ha infierito contro Erdogan colpevole non certo di poca democrazia, che anzi alla finanza e ai poteri economici va benissimo, ma di aver voluto avere un ruolo proprio nella guerra siriana, di aver resistito a un colpo di stato organizzato da satrapi locali e/o posizionati in Usa proprio per spezzare questo ruolo, di aver persino civettato con Putin e infine di rendere difficile la vita ai nostri agenti all’Avana con l’arresto per spionaggio del pastore evangelico statunitense Andrew Brunson, una copertura usata spessissimo il cui archetipo si può trovare nel padre della signora Merkel. Infatti nel pieno della crisi è arrivata la mazzata del raddoppio dei dazi americani su acciaio e alluminio di produzione turca, che ha costituito un segnale per la mattanza sui mercati valutari sebbene tale provvedimento incida in maniera del tutto marginale per l’economia turca visto che l’export di metalli è in forte diminuzione: esso serve ai nuovi impianti di costruzione di auto, bus e macchinari agricoli sorti negli ultimi anni mentre  il resto viene esportato principalmente in  Europa e in Asia. Tra l’altro con la flessione della lira turca questi prodotti sono ancor più concorrenziali di prima, anche con i nuovi dazi.

A questo proposito la crisi turca ha effetti anche in Italia, non solo tramite le esposizioni di Unicredit e di altri istituti che hanno paradossalmente fatto alzare un po’ lo spread, sebbene le banche tedesche siano ugualmente coinvolte (per non parlare della Spagna e della Francia con cifre tre o quattro volte superiori) a dimostrazione della “razionalità” dei mercati, ma anche in relazione alla politica industriale: con la lira turca così bassa e che comunque finirà per assestarsi su livelli inferiori a quelli di prima, si può ragionevolmente temere ancora di più per l’Ilva di Taranto, comprata per quattro soldi dall’Arcelor Mittal che già oggi soffre di sovrapproduzione. A meno che la cricca corrotta e stupida di Bruxelles non sia indotta ad aderire a nuove sanzioni per cui ci si chiede dove cavolo si esporterà in un prossimo futuro.

Intendiamoci la Turchia, sebbene non abbia troppo patito la crisi del 2008 e anzi sia enormemente cresciuta negli ultimi anni, ha sofferto di una sindrome da sviluppo ben conosciuta e che colpisce i Paesi investiti da un’industrializzazione totalmente esogena, ovvero fatta da gruppi esteri in cerca di delocalizzazione: l’aumento delle importazioni che paradossalmente finiscono per superare le esportazioni e per giunta in un contesto nel quale i capitali esteri possono scappare con estrema facilità. Questa condizione era evidente già da qualche anno, tutti gli allarmi erano già in funzione e avrebbe avuto bisogno di sostanziosi correttivi che tuttavia non sono stati affrontati a causa della assoluta necessità di consenso di Erdogan.

Il fatto è che in questo caso i fatti economici sono sovrastati dalla geopolitica perché il tentativo americano di sbarazzarsi di Erdogan e del suo progetto neo ottomano per riprendersi il controllo assoluto dello snodo anatolico, rischia alla lunga di risolversi nella perdita di una pedina di vitale importanza per l’accerchiamento della Russia e dell’Asia che da una trentina d’anni è l’ossessione degli Usa; chi pensa che il richiamo del Sultano di Ankara alla patria e ad Allah sia un ingenuità, ha compreso ben poco. Ma l’elite americana non sembra sia in grado di comprendere che le cose sono profondamente cambiate e che non basta liberarsi di Erdogan per ritornare agli anni Sessanta: del resto se fossero in grado di comprendere i mutamenti intercorsi avrebbero espresso altre politiche dalla fine della guerra fredda ad oggi.  Basterebbe semplicemente vedere come l’import – export fra Turchia e Usa è andato diminuendo da quasi il 40 per cento di tutto il commercio di Ankara al 5% scarso attuale (quasi tutto in armamenti e ricambi dei medesimi) che è una frazione del’interscambio con Germania e Cina, pari a quello della Russia e in via di essere soppiantato a breve da altri Paesi asiatici, India in testa. Alla fine chi troppo abbaia ha sempre più difficoltà a mordere, tranne con quelli che si voglio far azzannare a tutti i costi come gli europei.