statiuniti061Mentre i secondini dell’Europa si occupano di come mettere il bavaglio alla libera espressione delle opinioni e delle idee in rete con una direttiva degna di qualche autocrate fuori di senno (vedi qui ), i grandi gestori della rete si danno da fare per realizzare il diabolico piano di dare la parola a tutti purché non dicano niente. Dal momento che spesso le opinioni contrarie vengono etichettate come incitamento all’odio, cosa che tra l’altro esime da ogni argomentazione, Facebook ha messo a punto un algoritmo per scoprire e bloccare gli “odiatori”, scoprendo così un vero e proprio vaso di Pandora.

Il social network ha infatti bloccato il post di un giornale texano che in prossimità del 4 luglio aveva pubblicato ampi stralci della Dichiarazione di Indipendenza che sono stati giudicati portatori di odio e in particolare il brano che recita  “Il re d’Inghilterra ha aizzato insurrezioni interne tra di noi, e ha cercato di istigare chi abita sulle nostre frontiere, i selvaggi indiani senza scrupoli, la cui nota regola di guerra è la distruzione indiscriminata di tutti, indipendentemente dall’età, il sesso e la condizione”. Bè d’altronde Jefferson, il redattore effettivo della Dichiarazione, non ce l’aveva solo con i pellerossa, ma era anche proprietario di numerosissimi schiavi, così che è abbastanza facile interpretare quella sua frase: “Se Dio è giusto tremo per il mio Paese”.

Ovviamente alla fine Facebook ha riconosciuto l’errore del proprio algoritmo e ha ripristinato il post, ma sarebbe superficiale pensare che si sia trattato solo di un episodio curioso perché esso pone sul tappeto molte questioni. La prima è la totale inadeguatezza degli algoritmi che non sanno distinguere tra discorso in proprio e citazione, tra convinzione e ironia, né possono considerarne il contesto, ma che di fatto pretendono di “governare” la rete avvolgendola con l’ipocrisia del  politicamente corretto per di più perseguita nella maniera più banale e rozza possibile, attraverso semplici correlazioni tra parole.  Se infatti Jefferson avesse scritto: “… gli indiani la cui nota regola di guerra è la distruzione indiscriminata di tutti…” la sostanza non sarebbe cambiata di un millimetro, ma tutto sarebbe passato senza colpo ferire attraverso il vaglio di Facebook. L’idea stessa che una serie di regole automatiche  possa governare il discorso umano fa parte di un delirio contemporaneo dove idee e opinioni vengono scambiate per formulette convenzionali, così come il pensiero unico vorrebbe che fosse, ossia simile a se stesso.

La seconda considerazione riguarda il rinnovato desiderio di censura che pur essendo portato avanti con strumenti di mercato e con pretesti apparentemente nobili, è pur sempre un’odiosa forma di repressione incompatibile con la democrazia, molto simile, se non addirittura peggiore perché nascosta, di quella che l’occidente demonizza in aree del pianeta. Il nascere in seno alle oligarchie del potere di questa voglia di mettere il tappo alle opinioni non gradite, invece di contrastarle culturalmente, cosa per la quale dispongono di un’infinita potenza, fa intuire che siano di fronte nei dintorni storici di un mutamento di paradigma, ancora così magmatico che non se ne possono definire gli esiti e bisognerebbe invece lavorare perché essi siano i migliori possibili.

La terza considerazione è di carattere storico: inconsapevolmente Facebook ha scoperto che la dichiarazione di indipendenza è politicamente scorretta, così come lo è qualsiasi fatto storico importante che appunto cambia le carte in tavola. In sè in fondo non è stato affatto un errore. Ma ci sarebbe molto di più da dire perché leggendo integralmente la Dichiarazione di indipendenza si vede benissimo che tutto ciò che viene imputato al Re d’Inghilterra è esattamente quanto gli Usa hanno successivamente fatto non solo ai pellerossa, ma anche a buona parte del mondo. Così per ironia delle cose, i sistemi usati dalle elites statunitensi per reprimere tutto ciò che non è pensiero unico, mette a nudo i presupposti sui quali quelle stesse elites sono cresciute.