imageUn’operazione da 16 milioni di dollari messa in piedi dal miliardario israelo-canadese Sylvan Adams, ha portato il Giro d’Italia a partire senza alcuna logica né geografica, né ciclistica, né di tradizione sportiva da Israele, anzi da Gerusalemme, trascinando una gara che ha un secolo di vita nella sponsorizzazione e nell’abbellimento del governo Netanyahu, delle sue sanguinose repressioni a  Gaza, delle sue incursioni in Siria, della sua ossessione anti iraniana nella quale coinvolge anche gli Usa con i risultati che vediamo e  nella decisione di fare di Gerusalemme la capitale. Insomma un regalo di tre giorni vissuti sotto un segno diverso che tuttavia è costato al Giro forse qualcosa di più di quanto non abbiano incassato gli organizzatori: l’edizione meno affollata di sempre, priva di nomi di spicco persino tra gli italiani e la sensazione di aver voluto forzare una manifestazione di sport ad altri fini, facendo la solita figura da italiani.

Ma non è di questo che voglio occuparmi in via diretta, quanto di come l’operazione sia stata preparata sfruttando a pieno regime leggende storiche frutto all’inizio di dilettantismo e protagonismo locale, ma poi immesse in un circuito più ampio che fa riferimento a Israele stesso:  gli organizzatori del Giro sapevano di esporsi a polemiche per la loro decisione e così hanno voluto coprirsi le spalle con il mito di Gino Bartali che secondo voci non ben verificate avrebbe trasportato nel telaio della bici documenti falsi destinati agli ebrei italiani e stranieri per sottrarli ai fascisti e ai tedeschi ormai padroni della penisola. Un epopea che nelle parole della Rai, sempre sopra le righe in queste operazioni, si è trasformato in una grottesca missione in cui il campione avrebbe attaccato alla bicicletta una specie di tender dove era nascosto un ebreo per trasportarlo oltre le Alpi. Ci credo che “che esistono anche storici che contestano questa ricostruzione” anzi per la verità non ci sono storici che si siano occupati della vicenda e men meno qualcuno che possa dar credito a fesserie di questo genere.

Non voglio e non posso escludere che Bartali abbia effettivamente trasportato documenti falsi destinati agli ebrei, da Terontola ad Assisi, ma questo in realtà lo si inferisce  dall’asserita vicinanza all’arcivescovo di Firenze Elia della Costa che in effetti mise in piedi un’organizzazione per il salvataggio di ebrei e di profughi in genere che non da prove circostanziali o da testimonianze non generiche. Ci sono poi alcuni  fatti che contrastano con questa ipotesi: come mai ad esempio non si è saputo assolutamente nulla di tutto questo nonostante il numero alto dei testimoni sia nella Curia, sia nel Delasem ossia la Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei, per non parlare degli amici e dei familiari? Qui non basta certo dire che “ginettaccio” era schivo e non amava parlare perché cose di questo genere non sarebbero sfuggite nel maelstrom del dopoguerra tanto più per un personaggio che suo malgrado in questa storia c’è entrato di forza, a torto o a ragione, dopo l’attentato a Togliatti. E ancora come  mai Gino Bartali faceva parte della Guardia Nazionale Repubblicana, al punto che la stampa di destra al nascere di questa leggenda rivendicò al fascismo repubblichino la salvezza degli ebrei?

La narrazione nasce solo a cinque anni dopo la morte di Gino Bartali ovvero nel 2005 quando una prof di italiano e latino, Angelina Magnotta che dopo un viaggio a Gerusalemme nel quale gli insegnanti vennero invitati a cercare altri salvatori italiani di ebrei, oltre i 300 ufficialmente elencati nel giardino dei giusti, si butta toto corde in questa ricerca. E chi meglio di Bartali sul cui ruolo il libro Assisi underground e il successivo film avevano accennato anche se secondo Michel Sarfatti ex direttore della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea si trattava di pure invenzioni  del resto smentite all’epoca persino da don Aldo Brunacci che fu uno dei protagonisti dell’opera di salvataggio degli ebrei. Ma poco importa vista la golosità dell’argomento e così nel 2005 esce “Gino Bartali e la Shoa” pubblicato dalla regione Toscana, recentemente scomparso on line nel quale tuttavia compaiono solo testimoniante vagamente indiziarie anche per la difficoltà di reperirne di prima mano. In soccorso arrivano le “Pagine ebraiche” le quali scovano in Israele un testimone diretto, tale Giorgio Goldenberg, oggi Shlomo Paz, quasi novantenne sempre che sia ancora in vita, che sarebbe stato nascosto assieme a un cugino prima nell’appartamento e poi  nella cantina della casa fiorentina di Bartali. Così è se vi pare, ma ecco comunque la prova per iscrivere il grande campione nell’elenco dei giusti italiani, più tardi ufficializzata nel libro “La strada del coraggio” dei fratelli canadesi Aili e Andres McConnon che non si capisce perché mai si siano interessati della questione se non fosse per la stessa nazionalità del miliardario che ha fatto l’operazione Giro in Israele. Tra l’altro non parlando una parola di italiano non possono aver nemmeno fatto una seria indagine sul campo dimostrando tutta l’essenza di un’operazione “telefonata” .Tuttavia questa testimonianza diretta non si riferisce ai viaggi in bici per trasportare documenti o i vagoncini della Rai, ma al salvataggio diretto in cantina di cui peraltro i familiari del campione sembravano all’oscuro prima della comparsa di questo testimone. La leggenda si fraziona in più filoni.

In realtà esiste un’unica opera di valore scientifico sul salvataggio degli ebrei a Firenze e nell’Italia centrale dal titolo  “Ricostruzione concordataria e processi di secolarizzazione. L’azione pastorale di Elia Dalla Costa” edito dal Mulino nel 1983, nel quale di Gino Bartali non compare nemmeno l’ombra nonostante l’ampiezza delle testimonianze riportate in via diretta o indiretta attraverso una sterminata bibliografia, tra cui quelle di decine di sacerdoti e di ebrei di spicco impegnati nel salvataggio, alcuni dei quali scampati ai campi di concentramento dunque in grado di essere puntuali testimoni dei fatti anche  dopo la guerra ( se vi incuriosisce il libro lo trovate qui). Cosa davvero strana questa assenza perché il ciclista era già famosissimo avendo vinto due giri d’Italia, un tour de France oltre ad altre innumerevoli gare e un personaggio del genere non sarebbe certo passato inosservato anche per la semplice presenza. Né  per gli stessi motivi avrebbe potuto evitare l’interessamento delle SS o della guardia repubblicana, che conoscevano la situazione e sapevano perfettamente che conventi e canoniche ospitavano ebrei, sfollati e partigiani e vi facevano frequenti incursioni, così come erano allertate riguardo ai personaggi vicini alla curia.

Senza dubbio avendo avuto una crisi religiosa dopo la morte del fratello, anche lui ciclista e divenuto terziario carmelitano con il nome di Fra Tarcisio di S.Teresa di Gesù Bambino, Bartali avrà avuto contatti con Elia della Costa e/o gli ambienti della curia fiorentina, ma questo non significa che ne abbia necessariamente condiviso  l’opera come accadde per diversi alti prelati della zona appenninica e per il Vaticano stesso, oppure che vi abbia preso parte in maniera così importante e così assurdamente pericolosa vista la sua assoluta riconoscibilità. Insomma siamo di fronte a una leggenda che forse ha anche qualche appiglio, ma è divenuta palese falso storico al servizio di un’operazione di marketing geopolitico in cambio di una mancia.  “Gli è tutto da rifare” avrebbe detto ginettaccio tra i francesi che s’incazzano e i giornali che svolazzano.

Che ne direste se il prossimo giro partisse da Damasco? Così tanto per essere iscritti in un elenco più universale di giusti.