tazza-di-caffèMolti avranno letto della serrata di un giorno di tutti gli Starbucks, l’orrenda catena globale di caffetterie che oltre ad aver rubato senza vergogna – e per giunta anche con la pacchianeria che contraddistingue una  culinaria grossolana – la via italiana al caffè per trasformarla in americana, costituisce una delle piaghe del mondo contemporaneo e della sua patetica voglia di uniformismo consustanziale alla mentalità cosmopolita dove tutte le vacche sono nere. La chiusura non è stata dichiarata dai dipendenti che ne avrebbero più di un motivo se per caso avessero anche le palle e non fossero già cresciuti nella slavery way of life, ma dalla multinazionale stessa per permettere un corso anti razzismo visto l’enorme quanto ipocrita clamore attorno a un fatterello avvenuto a Philadelphia in un locale della catena: aver impedito a due neri di accedere alla toilette senza aver ordinato nulla e soprattutto  aver chiamato la polizia per farli arrestare.

Probabilmente impedire l’accesso ai bagni in mancanza di consumazione è una politica normale di Starbucks come del resto quella di qualsiasi locale negli Usa, ma in questo caso l’eccesso di zelo con manette e arresti oltre che la pelle nera delle vittime di tanta severità, ha portato la multinazionale a questa ignobile americanata del sedicente corso antirazzismo per togliersi fuori dalle polemiche. Una iniziativa peraltro grottescamente rivolta anche verso i moltissimi dipendenti neri, assunti non certo per benevolenza, ma perché sono quelli che meglio accettano i bassi salari. Da notare che siamo in un Paese la cui festa di fondazione, quella del Ringraziamento, ricorda lo sterminio di una tribù indiana e tra l’altro proprio di quella che aveva insegnato ai coloni ad allevare i tacchini, da cui l’arrosto di tradizione. E nel quale alcuni stati hanno ancora reperti di legislazione razzista. Tuttavia l’egemonia culturale e lo stato di eccezionalità preteso da Washington hanno avuto, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra un effetto prospettico deformante che ci rende in qualche modo difficile comprendere queste dinamiche. Per esempio abbiamo la convinzione non soltanto che Edison abbia inventato la lampadina commercializzata in Germania 30 anni prima o che Tesla abbia ideato un sacco di cose già inventate, leggenda questa di più recente importazione e imposizione per via comunicativa, ma anche che gli Usa siano stati i primi ad abolire la tratta degli schiavi e dunque in sostanza la schiavitù. Insomma che Lincoln, riferimento obbligato quando si tratta del tema, sia stato un pioniere dell’umanità quando al contrario è stato un tardo epigono. La tratta degli schiavi fu infatti abolita nell’ordine da:

  • Serenissima repubblica di Venezia nel 980 con la promissione del Doge Pietro IV Candiano
  • Comune di Bologna 1256 con l’abolizione. unica nel mondo occidentale, anche della servitù della gleba con le leggi  inserite nel Liber Paradisus
  • Brasile 1750
  • Francia 1794
  • Inghilterra 1808
  • Olanda 1814
  • Stati del Sud e centro america – Caraibi esclusi –  tra il 1810 e il 1830
  • Congresso di Vienna 1815 con la relativa adesione degli stati tedeschi, della mitteleuropa inclusa nel regno Asburgico e della Russia contro la tratta dei neri
  • Spagna e Portogallo 1817
  • Congresso di Verona 1822 al quale aderirono alla lotta antischiavita anche il regno di Sardegna, il regno di Napoli, lo Stato della Chiesa e il Granducato di Toscana
  • Tunisia 1842

Sebbene non sempre alle dichiarazioni seguissero immediatamente i fatti è evidente che l’abolizione della schiavitù in Usa arriva addirittura vent’anni dopo quella proclamata dalla Tunisia e comunque come buonì ultima in quello che potremmo chiamare mondo occidentale. Né si può sostenere che la tratta degli schiavi di per sé non sia strettamente collegata al razzismo come purtroppo accade in molta pubblicistica wasp americana che tende a smussare questa eccezionalità verso il peggio con argomenti del tipo solo il 25% degli abitanti del Sud possedeva schiavi o amenità di questo genere ( vedi nota). Le persone della mia generazione che sono state esposte durante tutta la loro infanzia all’eroismo del settimo Cavalleria o di  Davy Crockett massacratore di pellerossa ed eroe di Alamo dove il Texas chiedeva l’indipendenza dopo che il Messico aveva abolito la schiavitù, non si rendevano conto di questo contesto e solo quelli che per curiosità propria, per possibilità familiari, per inclinazione alla riflessione e libertà ideologica  hanno scoperto di che lacrime grondavano quelle storie. E le altre che poi sono seguite sull’onda della Fantasy posteriore.

Così è complesso rendersi  conto del contesto nel quale avvengono gli episodi alla  Starbucks e la loro presunta espiazione a forza di corsi. Dove l’esclusione reale si accompagna all’inclusione politicamente corretta della narrazione comunicativa, dove l’homo homini lupus comincia dal colore della pelle e si salda all’egoismo degli interessi. E’ un po’ come la confessione dove si rivelano i peccati quotidiani a cui non si ha alcuna intenzione di rinunciare, ma si recitano tre pater ave e gloria per essere mondi. Ricordo ancora il timore di gente di colore avvicinata magari per chiedere un ‘indicazione stradale che si dava alla fuga nella convinzione di trovarsi di fronte a qualche giustiziere bianco ( sebbene né io, né il fratello di Corrado Pani docente alla Berkley che mi accompagnava avevamo l’aspetto di Charles Bronson). E non parlo di qualche buco dell’Alabama negli anni ’30 ma di Los Angeles, anzi di Hollywood, nel 1980,, segno che qualcosa ancora ribolle nel sottosuolo e che le tensioni razziali sono ancora pienamente presenti e del resto continuamente riproposte nella loro sostanza dal cinismo della guerra.

Nota Storicamente l’unica società assolutamente schiavista, ma non razzista è stata quella romana in cui la servitù non rappresentava un diritto naturale del padrone verso individui considerati inferiori, ma solo una posizione di diritto positivo per cui lo schiavo poteva diventare cittadino romano da qualunque parte venisse e di qualunque etnia fosse. Nonostante l’avvento del cristianesimo questa mentalità non si trasferì nel medioevo dove la schiavitù era ammessa, anche se a cominciare da Calo Magno, non per i cristiani stessi o per le persone che aderivano alla fede al momento della cattura. Per questi ultimi c’era del resto l’istituto della servitù della gleba o, altre forme che sostituivano egregiamente la schiavitù salvando al tempo stesso l’anima del padrone.