mark-zuckerberg-matteo-renzi-620x430Proprio non si può stare tranquilli e ogni giorno porta nuovi motivi di malumore e di rabbia. Questa volta sono le accuse rivolte a Facebook di aver venduto i dati sui propri utenti a società che li hanno utilizzati per condizionare le elezioni americane e addirittura la Brexit. E’ chiaro che essendo tramontato il Russiagate con il quale si volevano prendere due piccioni con una fava, le elites di potere devono cercare un colpevole che in qualche modo giustifichi il fatto che il voto sia andato in direzione contraria alla volontà delle oligarchie più forti. Una così pericolosa, ma anche cosi inimmaginabile nel loro universo vendicativo, che richiede qualche sacrificio umano o quanto meno di borsa.

Così si è preso ciò che Facebook e gli altri social fanno quotidianamente, ossia vendere i dati per la “pressione commerciale” sugli utenti, creare, condizionare e orientare in proprio o per conto di altri poteri le correnti di opinioni o monetizzare le espressioni individuali e lo si è trasformato in un atto di accusa solo perché l’operazione è andata contro le oligarchie costituite che invece pensavano ai social come una forma di controllo sociale gestite tutte a loro vantaggio. Insomma Zuckerberg non sarebbe colpevole per la vendita dei dati, quanto di essersi fatto fregare riguardo al loro uso e di averli dati in mano a persone che andavano contro gli ambienti che avevano a suo tempo favorito la nascita dei social visti come potenziali recinti sociali, piuttosto che come veicolo di contatto e di scambio.  Ma di una cosa si può essere assolutamente certi: i sussurri e le grida di questi giorni non cambieranno proprio nulla proprio perché non esiste più una forma di pensiero in grado di fare un salto dal piano del mercato e delle individualità atomizzate.

Già da tempo infatti alcuni dei personaggi che hanno messo a punto i social network sono diventati critici nei loro confronti: Chamath Palihapitiya, un tempo vicepresidente di Facebook “per l’aumento dell’utenza” ha espresso l’opinione che i media sociali stanno “facendo a pezzi il tessuto sociale del modo in cui la società funziona”; Sean Parker, primo presidente di Fb, ha avvertito che i media sociali “sfruttano una vulnerabilità della psicologia umana”, rendendo dipendenti i bambini e interferendo con la produttività; persino Justin Rosenstein, l’inventore del sistema di Gchat, precursore di Goole+ e soprattutto del  “mi piace” adeso deplora l’effetto delle sue trovate. Anzi un  gruppo di veterani dell’industria tecnologica hanno fondato il Cht, Center for Humane Tecnology, per rimediare ai disastri provocati. Purtroppo però questo complesso di sforzi e di buone volontà si arresta lungo la battigia del pensiero unico, limitandosi a proporre solo strumenti che in qualche modo diano maggiore consapevolezza d’uso agli individui, rendano i social più a misura d’uomo o addirittura favoriscano la presenza di aziende specializzate in aree come la meditazione  o che cerchino di offrire ” pace e prosperità per tutti”. Sembra insomma impossibile che si riesca ad uscire da questo cartone animato della Disney che alla fine ripete i mantra usurati del capitalismo, che affida ai singoli la responsabilità del coinvolgimento tecnologico, senza riflettere per un solo istante sul fatto che il problema è strutturale, e che le major dei social network sono agenti di un vasto sistema del capitalismo di controllo nel quale è ovvio, se non alla base stessa del business che  i dati degli utenti siano raccolti e venduti agli inserzionisti, alimentando un potere contro cui non c’è difesa individuale che tenga.

Insomma questi pentiti della tecnologia non sono molto diversi dai profeti della disconnessione, ovvero quel pungo di miliardari e multimilionari tipo Deepak Chopra e Arianna Huffington che consigliano di disconnettersi almeno per un ‘ora o due al giorno dal computer e telefonini, insomma dalla rete per rilassarsi, diventare più creativi e aumentare la produttività. Già la povertà e la rozzezza di un  linguaggio incapace di distaccarsi dai topoi più sfruttati e insensati della contemporaneità, la dice luinga sulla consistenza di queste posizioni che in realtà sono forse più reazionarie di quelle dei non pentiti, perché insistono solo su cambiamenti individuali e mai strutturali o istituzionali. Facebook o Google non sono soltanto il risultato di tecnologie via via accumulatesi, ma costituiscono un tutt’uno con un sistema economico e politico nel suo senso più ampio, al centro del quale esiste solo il profitto: sono le ruote di un ingranaggio nel quale la vendita dei dati è cosa buona e giusta.

Quindi queste scaramucce su Facebook sono tanto più irritanti quanto più vanno fuori dal vero bersaglio e si limitano a considerare vasi speciali: ma la politica non è ormai vendita di slogan e di facce, non sono un prodotto elaborato come se fosse un palinsesto televisivo? Se tutto è profitto, tutto può essere eticamente venduto.