iso Anna Lombroso per il Simplicissimus

Una delle pene più avvilenti inflitte agli  italiani consiste nella condanna a contribuire direttamente con il canone obbligatorio alle remunerazioni e ai cachet delle star del servizio pubblico, i trombettieri di governo, cerimonieri di regime, opinionisti che fanno più ridere di comici suonati, informatori più soggiogati di quelli dell’Agenzia Stefani.

E  non serve astenersi dall’acquistare le merci che propagandano nelle vesti di testimonial imbonitori, materassi o beneficenza un tanto al chilo, se il prodotto più commerciato è quello solo apparentemente immateriale della persuasione al servizio di una ideologia imperiale e destinata a target di utenti cui resta solo il diritto a consumare derrate e bugie, articoli e illusioni.

Figuriamoci se non deve “roderci” mantenere  pure una ex Miss Fragola, ora conduttrice del servizio pubblico in forza alla rete generalista con, ho appreso, ben tre rubriche della mattinata Rai nella fascia delle dileggiate casalinghe di Voghera e non, ma anche di quella geografia grigia di giovani e ragazze che non studiano e non cercano e tantomeno trovano lavoro, di cassintegrati che stentano ad  arrendersi al giorno con le sue pene, di anziani soli, di part time soprattutto donne, di aspiranti manager di start up in impasse creativa.

Appagata e innamorata del leader della Lega Salvini, la spericolata ragazzona in predicato per l’interpretazione da prima signora, intervistata da uno di quei rotocalchi “per famiglie” che cercano di sostituire le dinastie reali con improbabili casate politiche e affaristiche che poi non c’è gran differenza, molto presenti da parrucchieri e estetiste,  ha esternato le sue convinzioni sul ruolo appartato e dimesso che dovrebbe ricoprire  una donna “di sani principi”, come la definisce il settimanale. E che più che al fianco di un uomo in vista sarebbe tenuta a muoversi, silenziosa e riservata, nella sua ombra, soddisfatta di prestarsi a riverberare la sua luce, magari inamidando felpe e lustrando ruspe nel tempo che le resta libero dalla fatiche delle conduzioni televisive e della presenza sulle riviste patinate, cui non intende rinunciare  a riconferma, ve ne fosse bisogno,  della sua indipendenza.

In attesa di altre  libere esternazionii della Isoardi,su accoglienza, integrazione, immigrazione, ispirate dalla stessa muliebre e responsabile sensibilità e emotività, le convinzioni  della fidanzatina di Salvini hanno trovato grande risonanza in rete, guardate con indulgente accondiscendenza  da uomini e anche donne di quella tipologia di soggetti che esorta a separare pubblico e privato, non si sa se nella speranza di rendere invisibili e inoffensiva la politica dei poteri rispetto a quella della vita, oppure augurandosi di essere esonerati nella cura degli affari propri, dalla responsabilità di quelli collettivi e comuni. E in modo  da potersi baloccare con la retorica dei sentimenti e con le specificità femminee della  petite diffèrence oggi he più che mai quelle differenze di prestano servizio di oscene disuguaglianze e inique discriminazioni.

Non sono stati molti i politicamente scorretti, trattai di livorosi invidiosi, che hanno ricordato come quella sdolcinata weltanschauung sia propagata non solo nell’alcova, nel tinello e nel cucinotto, ma possa godere di una tribuna di servizio pubblico, esaltando un prototipo di donna e un modello famigliare: un nucleo fortezza, chiuso in un isolamento difensivo e aggressivo, ringhioso e risentito,  nel cui interno si lavano i panni sporchi di tremende violenza, amare frustrazioni, avvelenate rinunce di talenti  e aspirazioni, che devono consumarsi in quelle quattro mura e una tantum in un’urna senza affetti reali perché non si traducano mai in critica, opposizione, ribellione.

È quella la famiglia che vogliono per noi,  dove chi ha la fortuna di avere un posto (abitualmente l’uomo che guadagna di più) è legittimato a vantare una superiorità riconosciuta socialmente e privatamente, dove alla donna viene raccomandata la gentile e appagante accettazione di un ruolo secondario così affine ai suoi codici genetici di gregarietà e accudimento in compiaciuta sostituzione di servizi e diritti. Una famiglia che si   esorta a tornare a usi e costumi tribali più convenienti e congrui con questi tempi di crisi, la cui sobria e severa compostezza autarchica suggerisce il rispristino di antiche tradizioni patriarcali, la tutela di valori sciacquati nelle acque inquinate del Po o i quelle assassine del Mediterraneo,  minacciati da invasioni criminali,  secondo comandi che passano per le cucine dove gli chef propongono zuppe di amare cicorie raccolte la domenica nei campi,  come espiazione di aver troppo voluto e mangiato, o in camera da letto, dove si incitano sciacquette dissipate ossessionate dalla carriera a riscoprire le gioie della maternità. Famiglie dove non vige il rispetto di antichi vincoli e patti generazionali ormai spezzati dall’astio e dal risentimento, ma l’obbligo a stare insieme perché non c’è spazio per la libera espressione di vocazioni, desideri, aspirazioni, dove si compie la riconfigurazione di nuclei arcaici forzati, autorità paterna, unica a aver diritto di parola,  e figure di contorno, figli senza speranza di futuro, mogli esautorate, zie zitelle rimaste in casa, nonni come un bancomat cui si rinfaccia  di essersi guadagnati la pensione.

A chi ci vuole così, espropriati, umiliati, ricattati , uomini e donne senza amore, anche quello ormai annoverato tra i privilegi, senza libertà, anche quella retrocessa a benevola elargizione, va tolto il diritto di parola. Restino loro nell’ombra, che spetta a noi riprenderci la luce e pure il sol dell’avvenire.