inception-coffee-table-black-1jpgUna decina di anni fa ebbe un certo successo e qualche oscar l’ennesimo filmucolo hollywoodiano, pastiche tra fantasy e thriller che sfruttava un’ antica e sfruttatissima  idea della letteratura fantascientifica ovvero quella di estrarre e inserire idee nella mente umana. Tuttavia qualcosa di nuovo distingueva questa modestissima prova dal titolo Inception (ovvero principio, inizio) da altri film più o meno sullo stesso tema e che  questo ha saccheggiato: qualcosa di nuovo che non stava nella macchina da presa, nella regia, negli effetti speciali, negli attori o nella sceneggiatura, ma molto più concretamente nel fatto che la storia non era altro che una stretta metafora di una realtà in cui l’immaginario, le idee, i  memi,  vengono caricati nelle teste senza che i possessori delle medesime se ne accorgano, ma con un impianto talmente pervasivo che alla fine le persone finiscono per abbandonare tutti gli altri punti di vista.

Un vero peccato che non si trattasse dell’inizio, ma quasi della conclusione di una Inception cominciata a metà degli anni ’70, man mano che l’ideologia neoliberista si sviluppava e si saldava ai meccanismi di dominio imperiale: in quegli anni miliardi di dollari furono spesi per creare in tutto il mondo occidentale decine e decine di think tank per diffondere il nuovo verbo, che poteva essere sintetizzato nel memorandum  che un avvocato d’azienda tale Lewis Powell, finito successivamente alla Corte suprema,  scrisse nell’autunno del 1972 per difendere la decisione della aziende automobilistiche di trasferire i loro uffici centrali da New York a Washington: “Siamo a New York da prima del volgere del secolo, perché consideravamo questa città il centro degli affari e dell’industria. Ma la cosa che influenza di più il business oggi  è il governo. L’interrelazione tra affari e affari non è più così importante come l’interrelazione degli affari con il governo. Negli ultimi anni questo è diventato molto evidente per noi”. Si tratta di una rivoluzione copernicana che prima vista sembra contraddire il meno stato più privato che è uno degli slogan delle peggiori vulgate liberiste, ma in realtà va letta al contrario: il governo diventa importante semplicemente perché esso è ormai un prodotto degli affari.

Nel frattempo stavano sorgendo potenti centri di “inception” come  Heritage Foundation, Istituto Brookings, Stratfor, Cato Institute, American Enterprise Institute, Council on Foreign Relations, Carnegie Endowment, Open Society Foundation, Consiglio Atlantico per ciarne solo alcune, che avevano il compito di diffondere un modello economico di deregolamentazione, privatizzazione e abbandono dei piani sociali: un’opera cominciata con la coppia Reagan-Thatcher, fatta propria dal regime Clinton – Blair, imbellettata dall’amministrazione  Obama e che negli anni ha risucchiato risorse incalcolabili per favorire la metastasi prima fra i cittadini americani e poi nell’intero occidente della cosiddetta democrazia di mercato. Un concetto ingannevole che confonde la libertà individuale con la libertà economica del capitale di sfruttare il lavoro e le vite.

Non c’è da stupirsi se da quarant’anni a questa parte gli aiuti statunitensi e occidentali sono forniti solo a condizione che i riceventi accettino i principi formali di questo sistema legato al mercato e ovviamente lascino il potere effettivo e le risorse in mano alla multinazionali che rappresentano il nuovo legislatore unico. Insomma un’economia sfrenata che più di recente si è impreziosita e al tempo stesso nascosta dietro slanci per le minoranze o per i diritti individuali attinenti alla sfera sessuale e alle sue modalità espressive solitamente represse o soggette a condanne morali.

Inutile dire che l’apparente liberazione è una falsa promessa contrapposta a un concreto ritorno dell’oppressione in ambito sociale che si evidenzia man mano che lo Stato e la rappresentanza vengono meno: del resto il medesimo neo liberismo riconosce che lo stato è l’ultimo baluardo che protegge la gente comune contro la predazione del capitale: rimuovi lo stato e essa sarà indifesa. La deregolamentazione abolisce le leggi; la ristrutturazione rimuove il welfare, i servizi universali e il loro finanziamento; la privatizzazione distrugge lo scopo stesso dello stato facendo assumere al settore privato le sue responsabilità tradizionali. Alla fine, gli stati si dissolvono con la possibile eccezione degli eserciti e delle forze di repressione. Rimarrebbe un grande mercato mondiale  non soggetto al controllo popolare, ma gestito dall’0,1% transnazionale disperso a livello globale, mentre l’intero processo è camuffato sotto il benevolente altruismo umanitario.

Già negli anni settanta i globalisti come trent’anni dopo si chiameranno i capitalisti neo liberisti, compresero che qualche diritto individuale e una cabina elettorale erano, assieme alla forza, il modo ideale per introdurre il pensiero unico non solo nelle società occidentali, ma anche nei Paesi emergenti, strombazzando  il trionfo dei diritti umani nei paesi in cui sono organizzati gli interventi e nei quali solitamente viene messa in piedi una sordida opera di rapina che secondo i calcoli frutta 100 miliardi l’anno di soli interessi. L’importante non è tanto nascondere le cose, quando assicurarsi che gli individui siano in sintonia sulla bontà della causa e sulla superiorità dei valori che essa rappresenta, cosa che in occidente serve allo smantellamento dei diritti e all’auto colpevolizzazione delle vittime che non riescono a sfuggire all’egemonia culturale del neoliberismo, la visione del mondo che fa da sonnifero per le masse.  Tuttavia non è detto che non si possa sfuggire a questa cattività: da dentro il leviatano che paradossalmente è diventata la libertà di mercato,  si possono avere generare relative autonomie e dissensi in grado di crescere, di allargarsi e creare crepe fatali nel monolitismo dogmatico. Questo e solo questo è ciò che oggi possiamo chiamare politica.