Le sue nuove posizioni post belliche, atlantiste, azioniste e radical – liberali collegate a una sorta di fede in una problematica eticità del capitalismo di origine weberiana, lo spinsero per due volte sulla cresta dell’onda prima come direttore ombra de l’Espresso con il famoso articolo di Cancogni su Capitale corrotta, Nazione infetta e successivamente con lo scandalo Sifar, quello del fallito golpe De Lorenzo. Proprio queste stigmate dell’ascesa di Scalfari ne consegnarono un’immagine di contraltare del Palazzo che era l’esatto contrario della sua natura di uomo in mezzo al potere. Avverso ovviamente al comunismo, e per certi versi anche alla Dc è rimasto sempre dentro la torre d’avorio con innamoramenti e tradimenti continui: così l’anticraxiano Scalfari è stato una decina di anni dentro al Psi, compresa una legislatura alla Camera, ha sbertucciato i comunisti, ma li ha lodati quando si avvicinavano alla Nato o diventavano meno comunisti nell’illusione di poterli gestire , si è innamorato persino di De Mita pensando di potere condizionare la Dc. E’ proprio in quegli anni e in quel flirt con l’intellettuale della Magna Grecia che nasce o meglio si concretizza l’idea del partito Repubblica che scorrazza nel Palazzo senza mai dubitare delle fondamenta. Del resto un decennio prima l’idea alla base della fondazione del quotidiano era quella di farne un foglio elitario che desse voce alle classi produttrici del paese contro le classi parassitarie che, evidentemente, votavano Dc. Ma naturalmente si trattava di un progetto estremamente elitario, radical chic, destinato ad andare nelle mani della gente che conta, con poche pagine, senza sport e cronaca, fatto da ragazzini e da alcuni culi di pietra cui si aggiungevano le grandi firme, la sua prima di tutte e poi di Sandro Viola,, Bocca, Aspesi, la Mafai, Peppino Turani, Terzani: l’intento era quello di snobbare i partiti di massa e collocarsi in un’area politica che cominciava dai repubblicani e finiva con gli autonomi, cioè i lembi non clandestini del brigatismo, anche se poi l’intreccio di informazioni che venivano a Scalfari dal Palazzo, da Evangelisti come da Cossiga, da Enrico Cuccia come da Forlani costituivano la linfa vitale del giornale e materiale per le messe cantate del direttore.
Non ci si può stupire se il quotidiano andasse male e fosse in procinto di chiudere quando Moro fu rapito e le Brigate Rosse scelsero Repubblica come veicolo della loro comunicazione. La prima foto Br faceva vedere Moro prigioniero che teneva in mano Repubblica. Scalfari, profittando della contemporanea crisi di Paese Sera e insinuandosi in un’area giovanile stanca del grigiore del Pci riuscì ad imbarcare un pubblico variamente e spesso anche vagamente di sinistra che poi lo ha seguito nell’anguilleria. L’opera fu completata successivamente con la batosta presa dal Corriere della Sera quando il quodiano milanese entrò nello scandalo P2, portandosi a casa anche una fetta di pubblico benpensante e moderato cui si dava in pasto la difesa della democrazia formale e delle istituzioni. In realtà a Scalfari era stata persino offerta una quota del Corsera piduista e l’avrebbe anche presa se la redazione non si fosse sollevata contro quel tipo di partnership. Furono i tempi d’oro del giornale che terminarono con l’ascesa di Berlusconi, l’acquisizione totale della testata da parte di De Benedetti, il lodo Mondadori e l’ingaggio del quotidiano in una battaglia di azionariato e conflitto di interessi. Che sfociarono con le dimissioni di Scalfari nel ’96 e la sua trasformazione in padre nobile e in qualche modo di direttore occulto. Ma anche questa violenta opposizione verso il Cavaliere ha sempre avuto caratteri più di etichetta del capitalismo che di politica. Poi lo sappiamo Scalfari è stato dalemiano ai tempi di D’Alema, prodiano ai tempi di Prodi, montiano ai tempi di Monti, un babà con Napolitano, letttiano con Letta, papalino con papa Francesco, renziano con Renzi. Un anno fa dichiarò che sarebbe stato con Berlusconi contro Di Maio e oggi dice che è meglio di Maio che Salvini nonostante quest’ultimo sia in strettissima alleanza con il Cavaliere, suscitando così le ire dell’establishment paleo europeista di cui tuttavia fa pienamente parte.
Badate bene non parla mai di elettori, di popolo, di necessità, di uguaglianza, di lavoro e di diritti, ma solo di personaggi, di vertici, di potere, di manovre. E tuttavia Scalfari è abilissimo a non consegnarsi mai del tutto, come accade invece per certa informazione spenta e grigia che ha grande difficoltà a cambiare i proprio feticci o a trovare un minimo di autonomia dai luoghi comuni: lui è talmente uomo di palazzo che ci sguazza dentro come una guida turistica o un ladro, come un custode o un direttore, ma mai come un visitatore. Questo è il suo vero Eugenio.