Chef rifugiatiSpesso gli spunti interessanti arrivano da dove non ce le si aspetta, dagli angoli bui, ma anche da quelli cos’ illuminati da creare abbagli. L’altro giorno un amico di Facebook mi ha segnalato un siparietto culinario su Masterchef come ricetta illuminante dell’ipocrisia contemporanea e non ho stentato a credergli visto l’ambito che è quello di una gara di cucina amatoriale completamente fasulla e per di più emanata da Sky ovvero dalla maggiore centrale, insieme a Fox, dei più turpi infingimenti dell’impero. Dunque ero preparato al peggio, ma sullo streaming non potevo credere ai miei occhi e alle mie orecchie: un gruppo di cuochi extracomunitari, provenienti dall’Asia e dall’Africa presentati come rifugiati, dovevano assistere i concorrenti nella preparazione di un piatto tipico del loro Paese, avvolti nello zucchiero filato di una mielosa quanto generica enfasi sull’accoglienza,  miscelata al valore del fusion.

Fin da subito è apparsa chiara tutta l’artificialità della tenzone, tra l’altro con aspiranti chef del tutto ignari persino del pollo al curry e guidati in ogni singolo passo dai cuochi dell’altrove, anzi pareva quasi uno spot elettorale appiccicato di forza ai fornelli, con un grottesco Bastianich che è riuscito a confondere l’emigrazione . probabilmente di lusso della sua famiglia – con il dramma immane delle migrazioni, ma il fatto è che la retorica  dell’accoglienza strideva in maniera lancinante con la provenienza dei  rifugiati stessi: Somalia, Nigeria, Afganistan, Pakistan, Mali, Yemen, Palestina,  Sarebbe interessante chiedersi come e perché questi siano dei rifugiati visto che tutti provengono da Paesi straziati direttamente o indirettamente dalle guerre occidentali e ancor più dalla rapina delle risorse locali che sia il petrolio nigeriano o l’oro del Mali che viene perpetrata sostenendo dittatori infami o governi impopolari?  Non abbiamo forse portato la democrazia in Afganistan gettando nel caos il Pakistan  e allora da che si rifugia il cuoco se non dalla guerra ormai ventennale che conduciamo lì e che fra l’altro ha reso sia i talebani che il tribalismo più forti? Vogliamo parlare della Palestina o della Somalia o dello Yemen dove si muore anche a causa delle mine italiane che non sono proprio un elemento croccante? O del fatto che al confine del Mali ci sono truppe italiane che senza il consenso del governo nigerino, sono li come vallassi degli Usa e valvassini della Francia per difendere le risorse uranifere e impedire che questa ricchezza vada alle popolazioni?

Forse la scelta dei Paesi di provenienza non poteva essere migliore per descrivere il baratro che esiste tra la retorica dell’accoglienza e le ragioni della fuga in massa da guerre e miserie in gran parte provocate dai colonialisti che amano travestirsi da accoglienti e che sono la massima espressione di una xenofobia compassionevole, vanamente nascosta dentro gli artifici di un’accoglienza pelosa. In compenso ci apriamo al mondo degnandoci di assaggiare piatti esotici nel grottesco parterre televisivo con i suoi personaggi di cartapesta: uno scenario che comunque è all’altezza dell’ipocrisia nella quale viviamo e anzi la disvela a chi sa coglierla. Gli abbagliati di tipo A si estasiano di fronte a tanta falsa apertura non riuscendo o più probabilmente non volendo trovare  la magagna per rimanere nella comoda atarassia etica, gli imbecilli di tipo B addirittura brontolano per questa sorta di  passaporto culinario dato ai rifugiati: uno scenario che ci dovrebbe far vedere in quale sprofondo di paranoia, di incoerenza, di autofinzione viviamo. Del resto difficilmente si potrebbe trovare uno scenario metaforico migliore per mettere in piedi la commedia dell’accoglienza umanitaria verso chi massacriamo e derubiamo per mantenere in piedi la folle bulimia consumistica nella quale ormai consistiamo e che non si può fermare un momento pena la caduta di un sistema che da buon pescecane deve sempre andare avanti per non affondare.  E ci facciamo pure prendere il naso dalle narrazioni assurde e ancheìesse declamatorie sul sostenibile, per scaricare una coscienza ormai sull’orlo di una crisi di nervi.