141105214Ad ogni ora del giorno facendo zapping mi capita di incespicare nell’ennesimo programma di cucina, una gara tra cuochi regionali condotta da quel simpatico cialtrone di Alessandro Borghese che vanta assai improbabili e annosi trascorsi nelle cambuse delle navi e in sconosciuti ristoranti londinesi giusto allo scopo di essere lanciato in qualità di figlio d’arte dalla madre Barbara Bouchet come chef televisivo. Forse c’è solo un corsicino di cucina e un’avventura estiva nel suo retroterra, ma non è della creazione istantanea di competenze  prodotta dalla comunicazione di massa che voglio parlare, perché dopotutto Borghese fa il conduttore e non lo fa nemmeno male, ma di un’altro tipo di manipolazione, di solito ben nascosta,  che tuttavia  in questo caso, probabilmente per mancanza di budget o errore di regia, risulta marchiano, almeno per chi ha un occhio allenato.

Chiunque si diletta a fare qualche foto o qualche video sa che per la resa visiva dei cibi sono consigliati particolari settaggi (spesso presenti come scelta di effetto nei menù di foto e videocamere di medio livello) che ne ravvivano l’aspetto, ma che non possono essere usati per la ripresa generale visto che altererebbero i colori di scena e l’incarnato delle persone. Così ci sono alcune telecamere dedicate, spesso steady cam brandite a mano, per riprendere i piatti mente le telecamere fisse si dedicano a tutto il resto evitando vistose distorsioni cromatiche.  In questo programma invece l’unica videocamera dedicata alla ripresa alimentare è posta sulla verticale dei piatti: così dall’alto si hanno immagini vivide e golose, al limite però dell’innaturale, dal basso così anemiche che  non risveglierebbero l’appetito nemmeno dopo una settimana di digiuno totale. Ma tanto nessuno assaggia, salvo i giudici chef  che sono profumatamente pagati per ficcarsi in bocca qualche orrore: tutto naviga sul nulla e non esiste controprova.

Ciò accade di solito in maniera molto più sofisticata in tutte le trasmissioni che si occupano di cucina restituendo allo spettatore letti di pappa pisellesca che sembrano laghi di smeraldo, rossi fantastici, gialli vividi che non corrispondono alla realtà e con l’unico problema di far apparire il bruno delle carni come bruciaticcio: ma non importa affatto perché questo tipo di programmi costituisce solo uno spettacolo che prende a pretesto il cibo: questo deve apparire invitante senza essere buono o effettivamente  mangiabile perché alla fine lo spettatore vuole il sangue, la rissa, non il succo di pomodoro. Tanto più che vi sono trucchi estetici, peraltro contrari alla buona cucina come olio in quantità sulle vivande calde, insalate invece praticamente scondite, cotture insufficienti per restituire un aspetto più luminoso e via così che creano una cucina a favore di camera che ha poco a che vedere con quella vera.  Insomma si tratta della costruzione di una realtà che non esiste e nella quale tuttavia siamo talmente immersi da essere divenuti una massa di gastrofighetti di cui la presunta alta cucina distrugge il gusto sopravvissuto al fast food e alle tendenze sceme che arrivano e passano come le stagioni.  Qualcuno ha scritto che gli chef tv sono delle puttane perché poi si prostituiscono alla pubblicità e ai cachet, ma il vero motivo è che si vendono a un meccanismo che è l’esatto contrario della cucina, è culinaria da pixel.

Ora bene o male tutti noi mangiamo, probabilmente alcuni sono anche capaci di mettersi ai fornelli: il cibo è una delle realtà di base della vita. Se è possibile un inganno così evidente su uno dei fondamentali dell’esperienza, possiamo solo immaginare il disastro e la mancanza di onestà che incombe su discorsi più complessi dove siamo ancora più inermi che di fronte a qualche manicaretto in grado di far fuggire i gatti. E non è un caso: la struttura neoliberista tende a distruggere le capacità di appropriazione del reale e quella critica trasformando l’educazione e la scuola in una sorta di addestramento al lavoro, ma restituendono in cambio una copia scenica senza concretezza e a due dimensioni. Infatti per tornare al tema l’ascesa progressiva della culinaria da tv ha coinciso con la sempre minore propensione alla cucina: si preferisce veder cucinare che imparare a cucinare finendo col perdere il dominio anche in questo ed essere gettati in un ridicolo universo di stelle, corone, forchette con dietro bussiness, corti circuiti, finanziatori occulti, in una dimensione insomma che sa di grottesco.  Apparentemente tale tipologia di programmi si prefigge lo scopo di trasferire competenza da chi compone piatti a uno spettatore che raramente lo farà davvero accontentandosi della falsa magia a cui ha assistito: di fatto si crea una sorta di delega ad altri della gestione della conoscenza. E’ quello che si chiama ormai “paradosso di Pollan” secondo il quale più invadenti sono i presunti virtuosismi di aspiranti cuochi, tanto meno sappiamo mettere in tavola qualcosa di decente. E sarebbe niente se questo non accadesse in ogni campo compresa la delega del pensiero all’esperto di turno o molto più spesso sedicente tale che parla di economia, politica, scienza, storia prendendoci per i fondelli. Stiamo trasferendo tutto dalla realtà allo scenario, pronti a fare le comparse e a subire come credibile ogni bugia scenica.