bull Anna Lombroso per il Simplicissimus

“Descrivere come un vantaggio l’assenza di stranieri o di studenti provenienti da zone svantaggiate o di condizione socio-economica e culturale non elevata, viola i principi della Costituzione e travisa completamente il ruolo della scuola”, parola di Valeria Fedeli.

Ecco, penserete voi, finalmente la ministra si è ravveduta e esce allo scoperto contro la Buona Scuola, quel modello di istruzione finalizzata alla distruzione definitiva della scuola pubblica,  esautorata dalla missione di formare esseri umani consapevoli della loro storia e del loro futuro. Ecco, vi sarete detti, se la prende con l’ideologia che ha ispirato una legge che incarica la scuola di promuovere la promozione della “competenza” in sostituzione della conoscenza, dell’insegnamento di nozioni sempre più specialistiche immediatamente spendibili  in un mercato del lavoro servile e precario, come nella distopia “Tempi moderni” dove l’operaio esegue un solo gesto: prendere la chiave inglese e girare un bullone, in modo da “formare” qualcuno che fa una sola cosa, e la fa senza pensare. Ecco, avrete appreso con sollievo, dopo aver esaltato come quelli che sul loro profilo Fb alla voce “studi compiuti”, scrivono : scuola della vita, si è ricreduta e si dispiace di non aver potuto – o voluto – percorrere un cursus studiorum che l’avrebbe risparmiata da colluttazioni coi congiuntivi e dal coronamento di ambizioni legittime solo grazie alla cieca fidelizzazione a un’azienda. E finalmente di è risolta di sollevare i giovani di oggi e di domani dallo stesso umiliante destino.

Macché, in coincidenza pericolosa con una campagna preoccupante per il suo partito che avrebbe via via perso uno dei suoi bacini elettorali di riferimento, gli insegnanti e i genitori ancora vagamente illuminati, la ministra rivolge la sua deplorazione col marcio che salta agli occhi, quella schiuma giallastra sulla superficie di un mare inquinato, condannando con vibrante sdegno l’uso  che qualche scuola di punta ha fatto  di uno degli strumenti più esaltati e rivendicati della riforma che lei si è trovata già fatta, ma eseguita devotamente come Charlot coi bulloni: quei Rav, Rapporti di autovalutazione, opportunamente rivisitati,  che devono  fornire una rappresentazione dell’istituto, attraverso un’analisi del suo funzionamento e costituire inoltre la base per individuare le priorità di sviluppo verso cui orientare il piano di miglioramento.

Il fatto è che, invece di ricorrere a una delle virtù più apprezzate dal ceto di governo, l’ipocrisia, qualche “dirigente scolastico”  ha fatto proprio lo slogan del sito istituzionale che deve accogliere i rapporti (Scuola in Chiaro) e ha descritto con onestà e trasparenza  stato e obiettivi della sua gestione e finalità della sua pedagogia.

Perfino la Repubblica, il quotidiano de la crème de la crème che a un tempo apprezza la Giannini e celebra in occasioni speciali Don Milani, ma nell’inserto culturale, segnala che il liceo genovese D’Oria di Genova si compiace di essere la scuola di elezione di un’alta borghesia che non deve essere  molestata o rallentata nella sua ascesa al successo  da «poveri e disagiati che costituiscono un problema didattico», mentre l’omogeneità delle caratteristiche sociali in assenza di gruppi di studenti “particolari”   (ad esempio, nomadi o studenti di zone particolarmente svantaggiate) costituisce “un background favorevole alla collaborazione e al dialogo tra scuola e famiglia”.  O che al classico parificato Giuliana Falconieri a Roma Parioli,   «Gli studenti dell’istituto appartengono prevalentemente alla medio-alta borghesia romana. La spiccata omogeneità socio-economica e territoriale dell’utenza facilita l’interazione sociale».  Come al Visconti di Roma che può vantarsi di essere  il liceo classico più antico di Roma che gode di fama e    prestigio anche a grazie alla presenza di molti personaggi illustri tra i suoi alunni e che si felicita per lo status sociale delle famiglie che lo scelgono per i loro rampolli, tutti di nazionalità italiana e nessuno diversamente abile, senza dire che la percentuale di alunni svantaggiati «per condizione familiare è pressoché inesistente».

Chissà come si è dispiaciuta la ministra di dover sottoporre a severo giudizio quei dirigenti scolastici che hanno assolto con più scrupolo i delicati incarichi  affidati loro dalla riforma: fare marketing per attrarre alunni e investimenti e quindi prestigio commerciale per i loro istituti, che la scuola deve comportarsi con il sapere come con arte e cultura, in modo che possano stare bene tra due fette di pane e portare profitti; che la scuola deve mettere in condizione di non nuocere, a immagine e reputazione, studenti provenienti da ceti disagiati e malmostosi, quindi esposti a rischi per l’ordine e la disciplina, che la scuola come la giustizia tollera e assolve solo le trasgressioni di chi ha e può godere di trattamenti privilegiati; che la scuola deve promuovere la meritocrazia secondo il pensiero unico, applicando i comandi secondo i quali si devono aggiudicare posti e carriere quelli che possono comprarseli con il denaro, l’appartenenza dinastica oppure, in qualche raro caso di self made men, con  l’ubbidienza, l’assoggettamento e la partecipazione ai nuovi crimini sociali, volontariato, corruzione, contratti atipici, in  quell’efferato programma che integra perfettamente gli obiettivi di distruzione del lavoro con quelli di distruzione dell’istruzione.
Ma d’altra parte quanti “comunisti” sia pure realisticmente revisionisti, quanti ferventi riformisti hanno mandato la loro prole in prestigiosi istituti privati con preferenza per scuole americane e tedesche in modo che possano dire e scrivere baggianate bilingue e attrezzati per diventare ignoranti si gran classe, pensando, quel che è peggio, di fare un investimento per il loro futuro. E quanto meglio avrebbero fatto a impegnare le loro risorse morali per salvare diritti, uguale accesso a sapere e conoscenza, a dar retta alle loro vocazioni e telanti piuttosto che ai propri sensi di colpa e alle proprie ambizioni frustrate, a insegnar loro a rispettare se stessi e a non fare agli altri quello che non vogliono sia fatto loro, che basterebbe in fondo questo comandamento a essere uomini migliori.