maxresdefaultPoco più di un secolo e mezzo fa Marx definì l’ Economist come “l’organo europeo dell’aristocrazia finanziaria” e questa funzione non solo non è venuta meno, ma anzi è divenuta ancora più centrale ed evidente nella contemporaneità oligarchica: dunque non è soltanto una curiosità se il settimanale ha dedicato il suo ultimo numero alla “prossima guerra e alla crescente minaccia di conflitto tra le grandi potenze”.  La tesi che viene illustrata è tutta all’interno di quell’ anglostupidigia formata da un insieme agitato, ma non mescolato di ipocrisia, ottusità ideologica e imperialismo inossidabile:  “Negli ultimi 25 anni, la guerra è costata troppe vite. Eppure, mentre infuriavano le lotte civili e religiose in Siria, Africa centrale, Afghanistan e Iraq, uno scontro devastante tra le grandi potenze mondiali è rimasto pressoché inimmaginabile. Ma questo è venuto meno … si sono prodotti cambiamenti forti e di lungo periodo nella geopolitica, mentre la proliferazione di nuove tecnologie sta erodendo lo straordinario dominio militare goduto dall’America e dai suoi alleati. Un conflitto di grandezza e intensità mai visto dopo la seconda guerra mondiale è ancora una volta plausibile. ”

Il lettore occidentale, abituato ormai da un terzo di secolo alla sepoltura delle guerre sotto tonnellate di slogan propagandistici sulla dfesa dei diritti umani e/o di lotta al terrorismo, si aspetterebbe che questo panorama di scontro globale e inevitabilmente anche nucleare fosse accompagnato anche da suggerimenti su come costruire la pace al posto dell’Armageddon. Almeno fino a pochi anni fa questa sembrava la strada maestra percorsa anche dai principali megafoni dell’imperial – capitalismo. Adesso invece la musica sembra essere completamente cambiata e il rappresentante delle oligarchie degli affari la cui ricchezza è legata al dominio mondiale degli Stati Uniti, vanno in direzione esattamente contraria: si sollecitano infatti gli Usa a sviluppare un ancor più forte potere militare  per difendersi da “rivali determinati e capaci”, presentando la meritoria argomentazione del sociopatico secondo cui la migliore garanzia di pace è la capacità dell’America di distruggere completamente gli avversari. Washington insomma deve agire “con urgenza per arginare il declino della propria egemonia” perché se cinesi e russi riescono a divenire dominanti nelle loro aree di influenza nelle loro regioni allora diventa possibile uno “scontro devastante tra le grandi potenze mondiali”. Nemmeno ci si domanda  se questa pretesa di imperialismo psicopatico abbia una qualche legittimità o un qualche senso etico: essa è invece è il piano di riferimento, la cornice inamovibile che regge l’argomentazione.

Pare, anzi è un discorso che impasta la stupidità alla paranoia e che non tiene conto di molti fattori compreso il fatto che le tecnologie sono ormai diffuse globalmente, anzi sempre più spesso vengono direttamente dall’avversario, anche se nascoste sotto marchi occidentali  e che insomma una superiorità assoluta è divenuta un’utopia o peggio ancora il riflesso di un intramontabile razzismo interiore. Tuttavia questo invito alla guerra non è privo di senso perché va letto con nel contesto di un panorama distopico presentato come introduzione alle armi: tra 20 anni – dice il settimanale – i cambiamenti climatici, la crescita della popolazione e i conflitti etnici e sociali  getteranno gran parte del mondo in una sorta di guerra civile endemica, con scontri che avvengono nelle periferie degradate dalle città, insomma qualcosa che potrebbe rassomigliare a ciò che è accaduto ad Aleppo. E suppongo che l’Economist sappia di cosa parla senza vergognarsene. Non ci interessa qui la verosimiglianza di questa visione peraltro piuttosto routiner nel mondo anglosassone, ma come essa si concili con la diuturna esaltazione del neo liberismo e delle sue miracolose ricette che sembrano del tutto impotenti ad evitare questi esiti, anzi ne sono alla radice.  Di certo non si può chiedere coerenza nel pensare, ma esiste una coerenza emotiva tra il panorama di degrado e la paura che esso trascini nel fango anche le attuali elites imperiali e la nuova, orgogliosa voglia di un scontro globale.

L’articolo principale di questo manicomio è assolutamente inequivocabile da questo punto di vista e prende inconsciamente i propri echi da Orwell quando sostiene che “la migliore garanzia di pace è una forte America, armata fino ai denti che minacci di annientamento i suoi avversari”. Toni mai uditi nemmeno nel bunker di Hitler, ma anche la più evidente dimostrazione che ormai l’organo pensante di questi informatori di servizio deve trovarsi in qualche luogo molto lontano dal cervello, perché subito dopo averci dato questa lezione sul mantenimento della pace si afferma  che lo sviluppo di una posizione militare sempre più aggressiva nei confronti della Cina e della Russia aumenta, non diminuisce, la probabilità di guerra perché “il pericolo più grande consiste in un errore di calcolo dovuto all’incapacità di comprendere le intenzioni di un avversario, portando a un’escalation inaspettata e senza controllo”.

E’ sempre più evidente che le oligarchie anglosassoni la cui ricchezza deriva dalle rendite di posizione sono ormai disposte a giocarsi il tutto per tutto, anche se in questa allucinante escalation di belligeranza stanno causando una corsa agli armamenti nucleari per difendersi: si dice della Corea del Nord, ma si tace sul rafforzamento in fatto di atomiche della Francia e della Gran Bretagna, del colossale sforzo cinese per mettersi in pari con l’autoproclamato avversario, ma anche delle intenzioni di Germania e Giappone di dotarsi dell’arma  nucleare (sempre che già non l’abbiano) in modo da sottrarsi alle imposizioni del padrone. Insomma la demenza senile di un impero rassomiglia alla corsa della regina rossa: non porta a guadagnare un centimetro, ma anzi a perdere terreno.