46d2c-125epovertc3a0Forse non c’è vocabolo più citato, ambiguità più evidente, alibi più subdolo di globalizzazione che ormai viene usata in ogni tipo di contesto senza che però ce ne sia una definizione rigorosa e non contraddittoria nei concetti e nei fatti, rimanendo insomma un convitato di pietra.  La parola è entrata nell’uso comune nei primi anni ’90 – non a caso dopo la caduta del muro di Berlino – come sostituto di “mondializzazione” che in estrema sintesi significava capitalismo + mezzi di trasporto veloci e che una volta caduta l’Urss era invecchiata in una notte, Ora bisognava trovare qualcosa che significasse capitalismo + comunicazione, ovvero pensiero unico pervasivo per il quale, fra l’altro si andavano creando i presupposti tecnologici con la rete internet.

In questo germe denotativo si nascondeva in realtà molto più, ovvero una nuova strategia del capitalismo per imbrigliare e sfuggire ai processi democratici e alle lotte di emancipazione che pur nel loro carattere idealmente internazionale si erano però concretamente innestati su realtà nazionali. La forma stessa del capitalismo poteva essere messa in crisi dalle battaglie sociali che reclamavano più uguaglianza in un sistema che predicava la disuguaglianza come motore economico. Nella prima metà del secolo XX° e più che mai dopo la Rivoluzione d’ottobre i potentati economici e gli stati che ad essi facevano riferimento, favorirono i fascismi per smantellare e penetrare  in tutto o in parte le istituzioni dello stato si diritto e ciò che esso portava con sé, ovvero e il processo di progressivo riequilibrio tendenziale del rapporto tra lavoro e capitale fino ad allora enormemente sbilanciato verso  quest’ultimo. Ci si accorse ben presto però che si trattava della strada sbagliata per molti motivi: l’ambiguità delle pulsioni che portavano i fascismi al potere non garantivano certezze e oltretutto la sottrazione di lotta sociale veniva compensata con un ultrabellicismo che danneggiava gli interessi dell’impero capitalista.

Dopo la seconda guerra mondiale con la vittoria determinante dell’Unione Sovietica peraltro del tutto inattesa per peso e proporzioni dalle elites occidentali, si dovette cambiare totalmente strategia e acconsentire allo sviluppo dello stato sociale, alla diffusione dei servizi pubblici e delle nazionalizzazioni, insomma a una perequazione sociale, favorita peraltro da un altro fatto inatteso, ossia una crescita economica favorita da un keynesismo sostanziale.  È importante analizzare il cambiamento strutturale nella configurazione economica e istituzionale di questi decenni nell’Europa occidentale: i processi democratici ancorché ideologicamente demonizzati, rafforzavano di fatto le classi lavoratrici e rischiavano di innescare un processo virtuoso di eguaglianza sociale anche a partire da differenze che allora parevano abissali, anche se in realtà molto contenute rispetto ad oggi.

L’idea della globalizzazione come strategia di contrattacco nacque proprio dall’evidenza che la forma stato si era dimostrata inseparabile dai processi democratici così come lo era stata paradossalmente anche per i fascismi: dunque occorreva smantellarla nei suoi pilastri. E non appena si ebbe sentore del declino dell’Urss alla fine degli anni ’70 si cominciò a mutare la natura del mercato comune europeo in un complesso a direzione finanziaria e oligarchica, compito peraltro abbastanza facile anche facendo leva sull’ “internazionalismo” delle forze di sinistra. Per la verità i partiti comunisti, forse anche sulla scia della geopolitica dei due blocchi, erano contrarie ai progetti federalisti, ma quando cominciò la dissoluzione dell’Urss e conseguentemente quella ideologica finirono per aggrapparsi proprio a questo precipitato di marxismo, finendo ben presto per confonderlo col cosmopolitismo neo liberista tanto da adottare l’inglese come propria lingua madre. L’euro in Europa, la conquista dei media e dunque il controllo dell’informazione maistream a mala pena contrastata dal web peraltro in rapidissima acquisizione, la caduta della rappresentanza da parte di una politica gestita dalle lobby e divenuta comitato d’affari ha compito l’opera. Certo come tutte le strategie ha avuto un punto debole: il ricorso agli eserciti di riserva per contrastare i diritti del lavoro e smantellare i poteri sindacati ha finito sia per suscitare proteste xenofobe che oggettivamente sono un grosso problema per le governance, ma soprattutto per trasferire altrove produzioni e sapere, con un gigantesco aumento temporaneo dei profitti, ma al tempo stesso con la perdita della centralità precedente del captalismo occidentale. L’altrove ora bussa alla porta.